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Anni fa ho visto qualche spezzone di uno dei film della serie Non aprite quella porta. Mi è rimasta impressa la scena di una ragazza — credo ultima superstite tra i suoi amici — che riesce a seminare l'assassino e si ritrova in una strada con delle case. Bussa a una porta e implora alla signora che le apre di aiutarla, ché c'è un pazzo omicida che la sta inseguendo. La signora la fa entrare, è una persona normale e pare chiami la polizia — o forse un vicino di casa — con cui sistemare la faccenda. Poco dopo però si scopre che anche lei è nel gruppo di cannibali e che lo sono tutti o quasi nella zona, e tu che ovviamente tifi per la povera ragazza protagonista vieni colto da un senso di orrore e stanchezza, e perdi tutte le speranze: qualunque cosa faccia per fuggire dagli assassini cannibali, ovunque vada non c'è mai fine. Una sensazione simile l'ho provata in qualche incubo fatto da piccolo. In uno c'erano dei vampiri che mi inseguivano saltando sui tetti. Anch'io potevo saltare, potevo addirittura volare, eppure per quanto potessi andare in alto loro erano sempre in una palazzina più alta, poco più avanti, ad aspettare che scendessi. Per quanto inutile possa sembrare tutto questo preambolo, è più o meno quello che ho provato poco dopo la metà di Misery. Stephen King ha preso una situazione estrema (lo scrittore in trappola della fan numero uno, che si dà il caso sia anche una pazza) e l'ha portata al limite, divertendosi a esasperare il lettore con il sadismo e l'astuzia di Annie. Qualunque cosa faccia Paul, Annie è sempre un passo avanti a lui. A qualunque punizione Paul venga sottoposto, ce n'è sempre una peggiore qualche capitolo dopo. Mi sono piaciuti i discorsi da scrittore di Paul Sheldon e tutte le sue riflessioni sulla scrittura, e poi è un libro che ti prende così di pancia che meriterebbe come minimo quattro stelline, ma devo ammettere che preferisco la lentezza e l'orrore sovrannaturale alla Shining che quello reale e — per quanto assurdo — plausibile di Misery.
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