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Non siamo mai guariti dalla Sindrome di Sarajevo, la maledizione di un luogo che ha incendiato il Novecento con la Prima guerra mondiale e ha tenuto a battesimo il Nuovo Millennio. Senza saperlo, la generazione cresciuta dopo il 1992 si porta ancora addosso la polvere di quelle macerie.
«A un certo punto ci accorgemmo che nemmeno i gatti dei musulmani andavano d’accordo coi gatti dei serbi. Non potevamo permettere che i turchi ci tagliassero la gola.» – Radovan Karadžic´, supercarcere dell’Isola di Wight
Fu la prima guerra in Europa dal 1945. Il più lungo assedio dell’età moderna. Genocidi e pogrom come non se ne vedevano dai tempi di Hitler e Stalin. A Srebrenica, l’uomo diede il peggio di sé. I lager, gli stupri etnici, i profughi. L’evoluta Europa si ritrovò faccia a faccia con un odio tribale che pareva uscito dal Medioevo. Accadeva solo trent’anni fa, al di là dell’Adriatico, e già non ce lo ricordiamo più. Eppure la guerra in Bosnia rappresentò un prima e un dopo per tutti noi, la madre di tante crisi successive: lo scontro con l’Islam, l’odio razziale, i nazionalismi, le grandi migrazioni.
Francesco Battistini e Marzio G. Mian, che raccontarono la guerra da dentro, tornano ad ascoltare i protagonisti di quella tragedia. Vittime e carnefici. Testimoni e mediatori internazionali, come Carl Bildt, Lord Owen, Carla Del Ponte. Incontrano il generale francese che comandava i Caschi Blu dell’Onu e scappò da Srebrenica. Intervistano nel supercarcere dell’Isola di Wight il primo responsabile di tutto: Radovan Karadžic´, condannato all’ergastolo per genocidio, che rivela episodi, retroscena, segreti di quegli anni di follia e della sua lunga latitanza. «A un certo punto – dice – ci accorgemmo che nemmeno i gatti dei musulmani andavano d’accordo con i gatti dei serbi».
Un viaggio inchiesta in un dopoguerra non ancora finito. Un’indagine sulle responsabilità d’allora e sui fallimenti del dopo. La pavida Europa, ostaggio dell’arroganza te - desca e incapace di gestire le emergenze in casa sua. Le ambigue manovre del Vaticano. I misteri del primo bombardamento nella storia della Nato. Le spie americane che al Tribunale dell’Aia ostacolavano la nuova Norimberga. I nuovi tamburi di guerra in una Bosnia ancora più radicalizzata. Passati trent’anni, questo libro racconta anche di noi. Di come siamo cambiati: facevamo a gara per accogliere i profughi, affondavamo nel fango per portare gli aiuti, gli intellettuali si sporcavano la camicia sotto le bombe. E l’ultimo giornalismo eroico, senza internet e social, andava sul campo a smuovere le coscienze e a smascherare il potere.
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«Dayton ha dato ragione alla guerra. Firmarono la fine del conflitto fingendo di firmare l'inizio della pace» dice il vescovo di Sarajevo Pero Sudar, intervistato da @liberobatt e @marzio_mian. Ed effettivamente, a guardarla oggi, la Bosnia non è altro che il frutto di un accordo che andava bene a fermare una guerra, ma non a creare uno stato. Un Frankenstein, fortemente voluto dal presidente Clinton in corsa per la rielezione, che a 25 anni dalla sua prima richiesta non ha ancora iniziato la procedura formale per il riconoscimento a stato membro dell'Unione europea. Credo che "Maledetta Sarajevo. Viaggio nella guerra dei trent'anni" sia un testo importante per chi vuole scoprire la Bosnia di ieri e di oggi, e necessario per chi invece qualcosa già lo sa. Dentro c'è davvero di tutto: un'intervista inedita a Radovan Karadžić, psichiatra e capo politico dei serbi di Bosnia oggi in carcere nell'isola di Wright, Emir Kusturica e il suo desiderio di creare una città impacchettata a Višegrad, il ruolo della sempre poco citata Biljana Plavšić nell'organizzazione delle operazioni di pulizia etnica, i ricordi al vetriolo di Carla Del Ponte e molto molto altro. Il libro è un lungo reportage, avvincente e per nulla pesante, uscito per @neripozza proprio in occasione del trentesimo anniversario dell'inizio della guerra in Bosnia Erzegovina. È un libro che guarda al passato, partendo da prima della sconfitta serba di Kosovo Polije nel 1389, riflettendo sul futuro. Nel farlo unisce puntini che molto spesso abbiamo dimenticato a loro stessi e mette ordine nella complessità per provare a comprendere un presente fatto di divisioni etniche, corruzione patologica e delicati rapporti tra paesi limitrofi, in un contesto dove attivistə per i diritti vengono minacciatə, vecchi mantra nazionalistici tornano alla ribalta e nuovi ponti vengono costruiti non per unire, ma per dividere, come nel caso del Ponte di Pelješac per collegare Dubrovnik al resto della Croazia senza dover passare per il bosniaco tratto di costa di Neum. Una lettura importante e obbligatoriamente da affrontare a trent'anni dall'inizio dell'assedio di Sarajevo e dallo scoppio del conflitto.
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