La storia di Josef K. processato da un misterioso tribunale, che si rassegna ad essere condannato, sopraffatto da un meccanismo totalizzante, rappresenta un esempio perfetto dell'assurdo kafkiano, capace di sollevare angosciosi interrogativi all'uomo contemporaneo.
Il processo
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Josef K. condannato a morte per una colpa inesistente è vittima del suo tempo. Sostiene interrogatori, cerca avvocati e testimoni soltanto per riuscire a giustificare il suo delitto di "esistere". Ma come sempre avviene nella prosa di Kafka, la concretezza incisiva delle situazioni produce, su personaggi assolutamente astratti, il dispiegarsi di una tragedia di portata cosmica. E allora tribunale è il mondo stesso, tutto quello che esiste al di fuori di Josef K. è processo: non resta che attendere l'esecuzione di una condanna da altri pronunciata.
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Edizione:19
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Anno edizione:2008
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Sabato Danzilli 14 novembre 2014
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In questo racconto, Kafka inizia parlando di una cosa, umana e confusa, e finisce parlando di un'altra, più ampia, di divina imperscrutabilità. Inizialmente parla di una accusa e di un processo, avanzata e condotto dagli uomini. In finale, K. sta parlando di un giudizio sulla sua anima, sul suo essere uomo, condotto da un essere supremo. La mortalità è la condanna. A suggerire questa lettura sono prima di tutto le ambientazioni: inizialmente, soffitte polverose, poi una grande cattedrale, spazi aperti e sconfinati, dove si può a malapena scorgere una figura femminile che si affaccia da una finestra... Il processo non è qualcosa di oggettivo e materialmente percepibile: inizia nella mente dell'uomo, si sviluppa in essa, ma ci sono degli elementi nella realtà che sembrano accompagnare la formazione di questa consapevolezza. Elementi eterei, impressioni, parole non dette, sguardi... La prima parte del libro è indecentemente divertente. Il buon senso suggerirebbe la finzione e l'assurdità dei contesti e delle situazioni: la confusione, la totale inaccessibilità ai meccanismi burocratici della giustizia, nonostante la disponibilità e la buona volontà del personale di servizio (ci troviamo proprio di fronte a due realtà diverse e non comunicanti, è inutile!), gli uffici nascosti nei posti più improbabili, l'atmosfera greve.. Ma l'esperienza, invece, evidenzia una serie di somiglianze con la realtà che conduce all'esclamazione: "quest'uomo ha descritto con le parole l'essenza e la natura intima della vicenda processuale della nostra tradizione giuridica". Se lette come riproduzione empirica della realtà, c'è qualcosa di geniale in queste pagine. Morale: nel momento in cui l'uomo si fa adulto e consapevole e inizia a interrogarsi sulla natura del proprio animo, la vita diventa un lungo giudizio, un processo.. che non può concludersi che con la morte. Siamo tutti colpevoli di eccessiva umanità. E perciò, siamo tutti belli nella nostra mortalità. In qualche mito greco, persino gli dei ci invidiavano.
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