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Non c’è dubbio che il motivo che muove l’indagine di Todorov sia quello di rispondere al testo di Huntington in relazione ai conflitti di carattere globale, ma la prima cosa da chiarire, che è anche l’aporia di ogni discorso interculturale, è relativa all’atteggiamento da adottare nei confronti della violazione dei diritti universali. È fin troppo evidente che essi derivino da un percorso storico occidentale contingente, che ha avuto i suoi momenti di progressione in avanti e delle ricadute in termini di aberrazione. Nel rapportarci agli altri spesso la supremazia occidentale ha ritenuto di poter adottare i suoi valori come transculturali, cadendo vittima dell’etnocentrismo. Tale mentalità è stata funzionale alla colonizzazione del pianeta, nella presunzione che tutte le culture dovessero piegarsi al progresso occidentale sia economico sia sociale, annullando le differenze tra le culture. Dall’altro lato, si è diffusa anche l’idea che per poter salvaguardare la diversità delle culture sia necessario consentire loro di applicare i propri codici morali. Questo presupposto che ha la sua radice nel relativismo culturale, ritenuto il precipitato del pensiero postmoderno, scade presto nella negazione dei valori universali, perché tutte le istanze morali sono ammissibili e indifferenti. Il pericolo maggiore in questa direzione è quello di non ricercare più gli spiragli per un confronto, la chiusura totale nella volta del proprio universo simbolico, rischiando l’incomunicabilità. È il dilemma nel quale si torva il discorso del multiculturalismo, che Todorov cerca di affrontare ponendo al centro dell’attenzione un minimum di etica tra una strizzata d’occhio a Jürgen Habermas e una a Ulrich Beck, autori che si muovono in un orizzonte interpretativo ancora troppo occidentale.
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