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Anno edizione: 2020
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Antefatto La libreria Nuova Europa di Roma organizza da anni presentazioni di libri con gli autori, spesso famosi, che parlano della propria opera, ma la trovata geniale sono i Laboratori di Letteratura e di Filosofia ai quali partecipo da tempo. Nei laboratori c’è l’inversione del ruolo e della scena. Mi spiego. L’ultimo dei 4 incontri - i primi tre sono di lettura a casa e discussione in libreria - prevede la presenza dell’autore che si trova come in una sala stampa in cui i lettori-giornalisti fanno domande sul libro. Ripeto è geniale e riporta al centro il lettore. Per chi si scrive sennò? Eccoci all’ultimo incontro in piena pandemia: non ci vediamo in libreria e Marco, coordinatore del Laboratorio, pensa che si possa concludere in remoto con Skype. Facciamo le prove tra di noi stabilendo modalità e soprattutto tempi. Si stabilisce di non superare il minuto e mezzo per consentire a tutti di porre domande. C’è l’incognita dell’autore che, come molti accademici, rivela un ego spropositato e la geniale “inversione di scena” ne patisce. Il saggio “RITORNO A UTOPIA” di Roberto Mordacci ci propone una grande idea in un presente che ne pare privo. Una grande idea che non avrebbe dovuto, a mio sommesso avviso, essere liquidata in un libro di 144 pagine formato A5, infatti risente di molte manchevolezze e dimenticanze. Il titolo, in maiuscolo, troneggia nella copertina seguito dall’immagine del dodecaedro attribuito a Leonardo. Il titolo e l’immagine ci dicono molte cose. Ci dicono di Tommaso Moro che narra di “De optimo rei publicae statu deque nova insula Utopia”, una isola ideale, di un dodecaedro che per gli antichi greci e platonici rinascimentali rappresentava l’intero universo. La copertina ci dice, forse, che il modello di società giusta di Moro deve riguardare l’universo intero. Ancora, ci dice delle utopie, ovvero il pensare a un mondo migliore di cui il novecento è ricco, insomma c’è “l’immaginazione al potere”. Dicevo che il tema dell’Utopia meritava maggiore spazio e approfondimento a partire da Atlantide, “terra feconda” come scriveva Esiodo. Studi relativamente recenti e rivoluzionari di John Victor Luce, così come quelli dell’archeologo Nikolaos Platon, avanzano l’ipotesi che Atlantide non fosse solo un mito, ma la culla della civiltà minoica. Affascinante. Sarebbe stato utile farne menzione. Un’altra puntualizzazione - scusate, ma le critiche sono utili a chi scrive e doverose da parte del lettore che per recensire un saggio si documenta - è relativa agli anni sessanta. Non si può licenziare con due righe questo periodo che peraltro lo stesso autore definisce come “il decennio più fortemente utopico della storia” (pag. 88), né ignorare le rivoluzioni socialiste dell’unione sovietica e della Cina. La Costituzione Italiana, che contiene semi di utopia e disegna un “capitalismo buono” con diritti e stato sociale per tutti, non trova menzione. Neppure, per restare in Italia, la città ideale di Adriano Olivetti nel novecento e di Brunello Cucinelli, oggi, a Solomeo. Poi c’è la musica - rock con i Beatles, lirica con la Boheme di Puccini - per nominare un compositore e un’opera a caso, l’arte pittorica, l’architettura e via discorrendo. Poi ancora le tecnologie, prima immaginate e poi realizzate. L’iPhone che integra computer, telefono, fotografia con un accesso immediato per cui siamo debitori al visionario Steve Jobs che ci sia simpatico o meno. Conclusione Ora faccio un salto nell’Antica Europa del neolitico. L’archeologa Gimbutas e l’antropologa Eisler scrivono della società gilanica, ovvero di una “Organizzazione sociale anteriore al patriarcato, esistita in Europa tra il 7000 e il 3500 a.C. “caratterizzata dall’eguaglianza tra sessi e dalla sostanziale assenza di gerarchia e autorità centralizzata” (Treccani), insomma l’utopia realizzata ?
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