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Mino, voce narrante dell’ultimo romanzo di Cosimo Argentina, VICOLO DELL’ACCIAIO, (ed. Fandango), in libreria dal 4 novembre, “c’ha il dono”: scrive storie e racconti. Ha 19 anni, studia giurisprudenza, ed è figlio di Camillo Palata, detto il Generale, un prima linea nelle acciaierie dell’Ilva. Al padre lo lega un amore viscerale: “io l’adoro questo pazzo assoluto, fottuto, che quando torna a casa in canottiera, reduce, sembra che sia stato a pranzo con gli dei”….. “Io sto pensando a lui, all’uomo che mi ha impastato. Ora si starà facendo tutta la circonvallazione del ponte di Punta Penna e tra un po’ imboccherà la Taranto-Bari. A breve lui e Houdini parcheggeranno nel mezzo del piazzale C del siderurgico e poi smarcheranno il cartellino. Una volta dentro mio padre si cambierà la camicia bianca a maniche corte e i calzoni grigi larghi – ha sempre vestito quello, il Generale – e indosserà la tuta verde che sa di disperazione e ferro arrostito. Poi si piazzerà davanti a un forno immenso e comincerà a far colar dentro le lacrime dei diavoli per vederle trasformare in un fiume di lava incandescente pronta a diventare un laminato. E voi a casa avrete i tubi per l’acqua calda e fredda… e voi avrete le condutture del gas e forchette e forcine per capelli…” Lui, Mino Palata, avrebbe gettato una bomba al centro dell’Italsider, ma in quel vicolo della morte, Via Calabria 75, dove tutti muoiono di cancro ai polmoni perchè in corpo, a famiglia, ci sono più benzene, polveri cancerogene, diossina, olicarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa… Mino r-esiste perché, lo abbiamo già detto, “ch’ha il dono”: la scrittura come forma di resistenza al dolore, alla morte, all’amore, le uniche cifre con le quali si misura la dimensione umana. Ed anche questo romanzo resiste. Resiste alla tentazione di dare risposte facili a domande complesse e conferma, diremmo consacra, Argentina come scrittore che non vuole rendersi simpatico a chi lo legge, che si oppone all’intrattenimento del lettore, nel senso di trattenere il lettore per renderlo passivo, per neutralizzarlo. Compiacere, distrarre, consolare non è lo scopo di Argentina. Queste 260 pagine non sollevano polvere ai confini della vita e della morte per renderli indistinguibili, incerti, per tentare di cancellarli. Tutt’altro. Con Vicolo gli occhi del lettore si aprono sul dramma di una città spaccata in due, sulla morte, sul dolore, sull’inerzia generata dalle tragedie esistenziali, sul silenzio asciutto e senza lacrime, sulle imprecazioni dialettali dei gechi. E’ questa, infatti, la metafora che la voce narrante utilizza per rendere la dimensione esistenziale degli operai dell’Italsider che nei momenti di riposo se ne stanno acquartierati, come gechi appunto, al bar di mest’Artur nel rione Italia Montegranaro a guardare. Una volta terminata la lettura di “Vicolo dell’acciaio” è proprio l’immagine dei gechi che resta nella pupilla del lettore e non tanto, o almeno non solo, la cruda descrizione delle morti bianche, come quella di Cogola, Amedeo Gridelli, finito dopo la colata tra i due rulli di un laminatoio a caldo del siderurgico. Un’immagine, quella dei gechi, di una potenza evocativa straordinaria. Qui da noi li chiamiamo lucertole frascitere, di colore tra il grigio e il beige, hanno l’incredibile capacità di aderire perfettamente a qualsiasi tipo di superficie e di mimetizzarsi con essa, rendendosi quasi invisibili e generando in chi riesce a scorgerli repulsione e rispetto. I gechi non si ammazzano, la loro morte è di cattivo auspicio. Sono come gechi gli operai dell’Italsider: brutti a vedersi quando se ne stanno acquattati al muro a bere birra, e a guardare le femmine affacciate, ma la loro morte tuona come un terribile maleficio in quel cielo rosso di diossina, contro il quale ben poco possono fare lacrime e scongiuri, cortei e iniziative ecologiste. E quei gechi hanno anche nomi e soprannomi che suonano male: Napoleone Candida, Giggino Insognato, detto Capretta, Domenico Giungato, detto Derviscio Dominik, Amedeo Gridelli, detto Cogola. Anche Mino Palata sta a guardare, trascinato quasi inerte da Isa, la ragazza della quale è innamorato, in campagne ambientaliste, in cerimonie e cortei funebri. Parla poco Mino. Mantiene col silenzio il rispetto delle parole che gli bruciano dentro. Sa che è impossibile far aderire la parola alla vita vera. Ma lui, Mino, dalle parole è attratto e così scrive racconti, sceglie di bruciarsi il fegato e il cuore per la scrittura, di rasentare la morte, di rasentare l´amore, in uno sforzo indicibile di spostare macigni, anche a costo, una volta spostato il masso, che gli si rotoli contro o che, una volta smosso il macigno, gli si riveli il formicaio dell’umano sistema che si agita nel fango. Quest’ultima fatica di Cosimo Argentina è scritta con la quantità necessaria di parole, non una di più non una di meno; è una miscela di toni che coinvolge il lettore facendogli aggrottare la fronte, talvolta serrare e altre distendere la mascella in un sorriso amaro; stride come il gesso sulla lavagna, come il granello di sabbia finito tra gli ingranaggi del pensiero. Tutt’altro che rassicurante o rassegnata “Vicolo dell’acciaio” è una storia preziosa e mai cinica: cinici sono coloro che hanno così poca fiducia nell’uomo da ingannarlo con le illusioni, con le bugie. Maria Rosaria Chirulli
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