In questo romanzo, Bernhard esibisce la propria autodistruttiva e bruciante nevrosi attraverso l'invenzione di un alter-ego ossessivamente psicotico: uno studioso di scienze naturali ermeticamente chiuso al mondo e in se stesso, relegatosi volontariamente in un gelido e ottuso paesino di montagna per dedicarsi alle sue ricerche. Scritto in prima persona, con uno stile logorroico, ansimante e ansiogeno, che riproduce i labirintici percorsi di un pensiero malato, il racconto ci introduce nell'atmosfera asfittica e persecutoria dell'ambiente che aveva fatto dello stesso Bernhard una vittima e un bersaglio privilegiato. Il protagonista del racconto, capace di vivere per mesi recluso in casa, in preda ad allucinazioni e a paure paralizzanti, a «un meccanismo di impotenza vitale e di nausea esistenziale», si imbatte casualmente in una coppia di stranieri: lui, ingegnere svizzero, lei affascinante e misteriosa signora di origine persiana, a cui presto si accompagna in lunghe passeggiate e discussioni filosofiche. La confidenza e le confessioni reciproche tra i due fanno ben presto comprendere allo studioso che la situazione più tragica non è tanto la sua, quanto quella vissuta dalla donna: e in questo scoprirsi meno fragile del temuto, e sostegno necessario alla disperazione dell'amica, trova una via d'uscita dalla sua depressione. Lo stile della narrazione si modifica conseguentemente al miglioramento dello stato mentale del protagonista: diventa più rapido e asciutto, più razionale e coerente. Il sollievo reciproco che i due riescono a concedersi si esaurisce però in fretta, illanguidendo in una progressiva e annoiata estraneità: e di questa irrecuperabile delusione sarà la signora a pagare le conseguenze più tragiche e definitive. «Da me si era aspettata la salvezza, ma io l'avevo delusa. Anch'io ero perduto, come lei, una persona annientata, anche se con lei non l'avevo ammesso, lo sentiva, lo sapeva. Da una persona simile non poteva venire la salvezza».
Sì
In un sonnolento villaggio austriaco, un solitario studioso di scienze naturali decide di confessare la propria «infermità psicoaffettiva» e di «rovesciar fuori» la parte interiore di sé. Con questa intenzione si reca a casa dell'amico Moritz, un agente immobiliare abituato, per lavoro, al contatto quotidiano con gli altri. Nel vivo delle confidenze compare una coppia di clienti: lui è un costruttore svizzero, lei è persiana. Fin dal primo istante la donna affascina l'intellettuale, che scopre in lei una degna compagna di passeggiate, conversazioni e disquisizioni filosofiche. A poco a poco attraverso la narrazione del loro incontro affiora un mondo di solitudini in cui l'atto esistenziale di maggior senso è quello della confessione. Non sempre, però, l'autosvelamento produce un beneficio. Lo scienziato ne trae vantaggio: l'incontro con la donna lo rende di nuovo «avido di vita» e lo allontana dall'idea accarezzata del suicidio. Alla persiana, invece, non accade la stessa cosa. In fondo al suo tentativo di confessarsi, infatti, c'è ben altra e più profonda solitudine, il cui senso è racchiuso nel suo estremo, definitivo sì.
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