Antichità inventate. L'archeologia geopolitica di Ciriaco d'Ancona
Un'interpretazione molto accreditata (da Benedict Anderson a Eric Hobsbawm) dell'origine degli stati nazione suggerisce che, oltre alla lingua, il collezionismo dei musei nazionali, la standardizzazione del cursus formativo scolastico e la rivoluzione tipografica abbiano svolto un ruolo decisivo nella "invenzione delle tradizioni" cui fu affidata la funzione di collante identitario dei popoli. Ma questo sarebbe avvenuto solo in età moderna: niente del genere sarebbe stato immaginato per gli stati dell'antico regime. Questo libro spiega come la tecnica della invenzione della tradizione sia stata efficacemente impiegata da Ciriaco Pizzecolli, noto come Ciriaco d'Ancona (1391-1452/55) anche molto tempo prima, almeno nel XV secolo, per motivi geopolitici, utilizzando l'archeologia e il collezionismo di antichità come un'arma da guerra e come veicolo delle ideologie della sovranità. Ciriaco è tradizionalmente considerato il fondatore dell'archeologia e della scienza antiquaria; i suoi biografi sottolineano, a partire dal contemporaneo Francesco Scalamonti, l'eccentricità della sua formazione prevalentemente commerciale. Il libro cerca di spiegare che fu invece proprio questo "occhio da mercante" e da diplomatico, se non addirittura di spia, a fare la differenza. Ciriaco, infatti, fece due cose: contribuì a diffondere l'interesse per il collezionismo delle antichità tra le classi dirigenti occidentali producendo quella che può essere chiamata una "commoditizzazione" di beni non ancora considerati al suo tempo di valore commerciale (solo successivamente apprezzati anche sotto questo profilo); utilizzò quelli da lui acquistati o copiati nel corso dei suoi numerosi viaggi in Grecia come doni per convincere politici, aristocratici e ricchi mercanti ad aiutare l'impero bizantino sotto attacco da parte dei Turchi, trasformando la tradizione antica e pagana nel patrimonio comune dell'Occidente.
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Anno edizione:2017
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