La letteratura di viaggio, si sa. e' un mondo a parte. Ci vuole un temperamento particolare, che generalmente non si sposa con la genialita' creativa, a parte le eccezioni come Goethe. Ecco perche' i vari Ibn Battuta, Rustichello da Pisa o Bruce Chatwin (per quanto il suo Utz sia un piccolo capolavoro) si ritagliano il loro spazio come campioni del genere. L'inglese Patrick Leigh Fermor e' uno dei capostipiti. Questo libro incantevole e' la seconda parte di un viaggio "da pellegrino" fino a Costantinopoli. Parla di uomini ed essere invisibili, spiriti della foresta e paesaggi fiabeschi, con delicatezza e tocco soave, facendoti partecipe dell'esperienza come se fosse stata vissuta in prima persona e interessato a conoscere i luoghi anche se non erano mai stati in cima alle tue preferenze. Che e' poi il marchio del grande resoconto di viaggio. Intrigante e' poi l'ultimo capitolo, prima dell'appendice, "Qui finisce la Mitteleuropa".
Fra i boschi e l'acqua
Nel 1934 Patrick Leigh Fermor ha diciannove anni, e già da alcuni mesi si è lasciato alle spalle l'Inghilterra e un curriculum scolastico scellerato con il fermo proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante», dormendo nei fossi e nei pagliai e familiarizzando solo con i suoi simili. "Fra i boschi e l'acqua" è il racconto della seconda parte di quel viaggio, e prende avvio dal punto esatto in cui era terminato "Tempo di regali": il ponte di Mária Valéria, al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, che di lì a dieci anni sarà minato dai tedeschi in ritirata e mai più ricostruito fino al nuovo millennio. Ma i mille chilometri successivi – dalla Grande Pianura ungherese, lungo il corso del Tibisco e del Maros e attraverso la Transilvania, fino alle Porte di Ferro, dove collidono i Carpazi e i Balcani – aprono una parentesi idilliaca e precaria nel secolo più violento della storia: il ritmo del viaggio rallenta, il passo si fa più pigro, la percezione del tempo svanisce, come in «un felice e gradito incantesimo». Con sapienza lirica, vigore muscolare e superbo talento per la digressione, Leigh Fermor racconta incontri con cervi e boscaioli, ritrae manieri isolati e villaggi di montagna, fienagioni e favolose biblioteche, rievoca notti passate sotto le stelle e amori estivi, riferisce leggende di spiriti, fate e lupi mannari e conversazioni con un'aristocrazia votata all'estinzione. Immagini sparse che compongono un quadro dalla grazia impareggiabile e suscitano nel lettore una sorta di incantamento: segno distintivo, questo, dell’appartenenza di Leigh Fermor alla medesima dinastia di Robert Byron e Bruce Chatwin.
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