“Il carcere” di Cesare Pavese, piccolo romanzo in cui attraverso la figura di Stefano, ingegnere confinato in un piccolo paese sul mare, l’autore descriverà il proprio confino – avvenuto tra il ’35 e il ’36 a causa di alcune lettere – e la sensazione di essere rinchiuso in un carcere di cui proprio il mare è la quarta parete. Stefano è costantemente ossessionato dalla paura che da un giorno all’altro, senza preavviso, la polizia potrebbe portargli l’ordine di lasciare il paese, forse per riportarlo al carcere vero e proprio; proprio per questo non vorrà mai disfare la valigia perché lo trova essenzialmente inutile. Man mano che Stefano si abitua alla vita di paese e comincia a fare la conoscenza dei cittadini si rende conto che in realtà sono tutti dei carcerati, ma ognuno si illude del contrario, si illude di avere lo spazio infinito davanti a noi. Ma Pavese ci dice che il carcere di cui siamo prigionieri non deve essere per forza quello fisico, ma soprattutto anche la solitudine insopportabile da cui ci si sente soffocati, i limiti che da soli ci poniamo possono costituire le sbarre della nostra cella… e a detta di Stefano la cosa peggiore che possa capitare è subire i propri limiti. Altro tema ricorrente nell’opera è la donna, attraverso le figure di Elena – figlia della padrona di casa – e Concia, una serva a cui Stefano spesso pensa. Descrivendo il rapporto che l’ingegnere anche con le due donne, in particolare la prima, Pavese riesce a disegnare ancora più accuratamente il carcere che rinchiude Stefano. Lo narrazione è abbastanza lenta, nonostante le poche pagine, ma nonostante ciò il romanzo rimane una piccola perla grazie alle doti narrative dell’autore che cominciavano a mostrarsi proprio in quegli anni. Anche in questo ritroviamo le note nostalgiche che a detta dei più – io per il momento non ho letto abbastanza romanzi dell’autore per confermarlo – sembrano essere una prerogativa dello stile di Pavese.
Nel 1935 Cesare Pavese viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per aver tentato di proteggere la donna amata, militante nel Pci. Il carcere, pubblicato solo nel 1948, nasce così da una storia di privata solitudine e riapre il problema del solipsismo intellettuale cui Pavese riconobbe, scrivendo dieci anni dopo La casa in collina, di essere ancora legato. L'esilio forzato in un luogo tanto diverso e lontano dal suo mondo piemontese d'origine è metà condanna metà alibi del suo volersi fuori dal mondo, del suo guardare la vita "come dalla finestra del carcere". L'ingegnere, protagonista del romanzo, è un intellettuale che imputa a sé stesso più che al mondo la responsabilità della propria situazione, rifiutando di riconoscervi delle giustificazioni politiche in un periodo in cui maggiore era il consenso degli italiani al regime fascista, tra la guerra d'Abissinia e quella di Spagna. Il confino diventa atteggiamento, presa di posizione, un modo d'essere che Pavese aveva sempre considerato come costitutivo e insieme limitativo della propria esperienza.
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Anno edizione:2007
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