Gli autori uniscono semiotica, diritto e cultura digitale per analizzare non tanto “come funziona” ChatGPT, ma cosa significa usarlo. Il libro smonta i luoghi comuni sull’IA generativa, affronta le implicazioni etiche, giuridiche e sociali di questa tecnologia e ci invita a guardarla per quello che è: uno specchio (o pappagallo come dissero a @testofirenze durante l’evento di presentazione), più che un oracolo. È ovviamente un fenomeno culturale che ci riguarda da vicino perché tocca la scrittura, la conoscenza, la creatività, e perfino il modo in cui costruiamo la realtà. Pur essendo un saggio, il tono non è pesante né accademico: è un linguaggio limpido, ragionato, ma accessibile anche a chi non ha un background tecnico. Gli autori riescono a mantenere equilibrio alternando spiegazioni teoriche a momenti di riflessione. Ho apprezzato che non demonizza né idealizza l’intelligenza artificiale. Uno dei meriti è proprio che evita tanto l’entusiasmo acritico quanto il panico tecnologico. Li troviamo più propensi a dire: “Ok, bella l’IA generativa, ma andiamo a vedere i costi, le fiction che ci stiamo raccontando, e le persone che stanno dietro i dati”, ovvero: non è solo un progresso tecnico, ma comporta anche conseguenze: consuma energia, sfrutta dati umani, crea nuove disuguaglianze lavorative. Spesso intorno ad essa costruiamo l’illusione della macchina intelligente come forma di vita pensante. Infine ogni testo, immagine o informazione che un’IA utilizza nasce da esseri umani. C’è chi li ha scritti, prodotti, caricati online. E ci sono anche lavoratori (spesso sottopagati) che addestrano queste tecnologie, selezionando e correggendo dati. Santangelo, Sissa e Borghi ci invitano a spostare lo sguardo dall’oggetto (l’IA) al contesto (la società che l’ha creata). Se lavorate con le parole, come me, e vi chiedete cosa resterà “umano” nel nostro modo di scrivere e comunicare, questa lettura è un ottimo punto di partenza.
