Diario di un procuratore di campagna - Tawfîq Al Hakîm - copertina
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Diario di un procuratore di campagna
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Descrizione


Il sostituto procuratore di una cittadina del Delta del Nilo viene svegliato nel cuore della notte per un omicidio. La sola persona a conoscenza dei fatti è Rim, una bellissima adolescente che ben presto scompare senza lasciare tracce. Per dodici giorni, il magistrato e la sua squadra di poliziotti corrotti e inefficienti, insieme allo strano vagabondo ispirato che li segue nelle indagini, si butteranno sul caso con insolito zelo, nella speranza di ritrovare quell'immagine di bellezza. In questa cornice poliziesca l'autore traccia il ritratto comico e crudele di una società provinciale divisa fra rappresentanti delle istituzioni, piccoli poteri locali, e contadini alle prese con la miseria e l'imperscrutabile macchina repressiva dello stato.

Dettagli

30 giugno 2005
213 p., Brossura
9788874520596

Valutazioni e recensioni

  • Enrico Caramuscio

    Tawfîq Al-Hakîm ci porta in viaggio in un Egitto rurale di inizio Novecento ricco del fascino della tradizione ma al contempo pieno di ombre e contraddizioni. Lo fa con grande ironia, con uno stile brillante e spiritoso, alternando frizzanti dialoghi ad argute, e spesso amare, riflessioni. Lo fa giocando tra il giallo e la denuncia, mettendoci al fianco di un sostituto procuratore intelligente e pieno di zelo ma oramai disilluso dal cattivo funzionamento della macchina giuridica e sopraffatto dal lerciume istituzionale. Seguiamo il magistrato in un’indagine per omicidio, a combattere con la corruzione e l’inefficienza della polizia, a scontrarsi con la diffidenza della gente comune e a sobbarcarsi i pesanti oneri di una burocrazia secondo cui l’esigenza di redigere un buon verbale viene prima della ricerca della verità. Al fianco del protagonista, ci inoltriamo poi in una fitta ragnatela di processi minori, di contravvenzioni, contenziosi, ammende e scartoffie. Una carrellata di piccoli casi che rappresentano momenti di forte critica sociale, grazie ai quali l’autore mette in luce l’incolmabile distanza tra popolo e governo, tra chi si barcamena come può per sbarcare il lunario e chi stabilisce regole che non tengono minimamente conto della vita quotidiana, tra chi cerca di far rispettare la legge e chi la legge è costretto a subirla senza capirne le ragioni. Uno Stato che non muove un dito per istruire la povera gente salvo poi punirne l’ignoranza, non rifornisce i villaggi di acqua corrente ma multa chi lava i panni nei canali, emana sentenze in fretta e furia senza neanche ascoltare cosa hanno da dire gli accusati. Un Paese in cui la connivenza tra governo e polizia non è uno scandalo ma la regola, in cui le elezioni sono palesemente truccate, la politica calpesta la giustizia, l’ordine e la morale. Uno Stato che guarda a Ponente, ma dell’Occidente sembra prendere solo il marcio. “…Là, il crimine civilizzato esce sulla sua macchina blindata armato di revolver, mitragliatrici ed esplosivi per dare l’assalto alle più imponenti banche e tesorerie pubbliche, e poi torna nel suo nascondiglio con immense fortune in contanti. Qua, il crimine primitivo esce avvolto nel suo mantello, col randello, la falce o lo schioppo in spalla, per versare il sangue di un povero diavolo e vendicare ciò che le tradizioni e i costumi condannano come un disonore. Là potere e denaro, qua tradizioni e costumi. Ecco la differenza tra il progresso e l’arretratezza, fra ciò che occupa i pensieri dell’uomo civilizzato e ciò che occupa i pensieri dell’uomo primitivo. Il male infatti resta sempre il male. Ma il male prodotto da una grande causa è più degno di stima di quello che nasce da una povera causa da nulla. La civiltà superiore non è quella che elimina il male e cancella la criminalità, ma quella che crea un male superiore e una criminalità superiore.”

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