Edimburgo è uno di quei romanzi che non si limitano a raccontare una storia: la incidono. Al centro c’è Fee, un ragazzo sospeso tra due mondi: da una parte le sue radici coreane, un universo di miti, leggende e animali fantastici; dall’altra il Maine, un luogo che gli ricorda ogni giorno quanto desideri appartenere a qualcosa. Quando entra nel coro maschile, Fee crede di aver trovato un luogo in cui la sua voce possa finalmente esistere. Ma qualcosa si incrina: il direttore rivolge attenzioni perverse ai ragazzi e questi ultimi si trincerano nel silenzio, tra paura e vergogna. Fee sente un peso ancora più opprimente, quando nota che anche Peter, il suo migliore amico, sembra intrappolato nella stessa ombra. Da qui in avanti il romanzo di Chee è un corpo a corpo con le conseguenze del trauma: l’abuso smette di essere un episodio e diventa un’ombra che accompagna Fee fino all’età adulta. La forza del libro sta nelle tematiche, ma anche e soprattutto nella sua scrittura lirica ed elegante, che crea un contrasto devastante. La violenza viene raccontata con linguaggio poetico, quasi musicale. Il tema dell’identità è centrale: Fee cresce segnato dall’eredità culturale coreana, fatta di simboli e metamorfosi, tra cui emerge la leggenda della volpe, metafora dell’inganno, dell’astuzia e dei volti del desiderio. In questo sostrato mitologico e simbolico, si percepisce un profondo amore per l’arte e per la letteratura, con richiami anche ai miti greci e romani e alle loro riletture in chiave occidentale. Se la prima parte del libro affronta l’abuso con precisione dolorosa, la seconda si fa romanzo di anti-formazione, che mostra le crepe lasciate dal trauma. È un libro tristissimo, ma allo stesso tempo potente: Fee trasforma la tragedia in canto, mostrando che l’unico modo per sopravvivere al dolore è imparare a nominarlo.
