Fotografia post mortem
Prima dell'invenzione della dagherrotipia, nel 1839, l'unico modo per tramandare la propria immagine era il ritratto, ma erano in pochi a poterselo permettere. Con l'avvento della fotografia si diffuse l'usanza della fotografia post mortem, una pratica sviluppatasi in epoca vittoriana e caduta in disuso negli anni Quaranta del Novecento. All'epoca, il tasso di mortalità infantile era assai elevato, e non di rado le fotografie post mortem erano l'unico modo che i genitori avevano per conservare l'immagine dei figli. I soggetti venivano spesso ritratti come ancora in vita: con gli occhi aperti, o così dipinti, o addirittura impegnati in piccole attività quotidiane. Alcuni recenti studi suggeriscono che questa pratica possa ricondursi a più antiche e radicate pratiche di tanatometamorfosi (trattamento delle spoglie). Se così fosse, rappresenterebbero una sorta di mummificazione visiva, dove la sembianza di vita sia resa necessaria per esprimere lo stato di salute dello spirito del defunto. Lo studio di Mirko Orlando giunge a colmare una carenza critica su un tema tabù, su una pratica che, seppure in vesti macabre, nasconde significati che vanno ben al di là della semplice "foto ricordo".
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Anno edizione:2013
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In commercio dal:27 febbraio 2013
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