L'imprevedibilità del bene

È giustificato infliggere dolore per vendicare il proprio? Uccidere per “limitare i danni”? Beh, io non lo so, ma quando è la tua famiglia quella a finire nel mirino, e quando chi dovrebbe tutelarti trova delle giustificazioni, come puoi essere biasimato? 'L’imprevedibilità del bene’ è un thriller che tratta un argomento molto forte e che ti porta a chiederti che cosa faresti tu in determinate circostanze. Racconta la sua storia attraverso l’uso di una narrazione multifocale: ogni capitolo, scritto in prima persona, vede protagonista sempre un diverso personaggio e questo contribuisce all’esperienza di un testo dinamico; i capitoli, poi, sono piuttosto brevi ed ecco che le sue oltre cinquecentocinquanta pagine sembrano essere molte di meno. Per me è stato così. Le parole si sono rincorse l’una con l’altra e vivere questa indagine in compagnia di Franco e Daniele è stato piacevole, “di intrattenimento”. Però. Questa volta, ciò che mi ha messo più in difficoltà durante la lettura è stato lo stile di scrittura dell’autore. Ora, non sto parlando di errori grammaticali, tempi verbali errati e altre specifiche del genere; non sono qui per farvi una lezione e, soprattutto, da questo punto di vista alzo le mani… perché questo romanzo è scritto bene – anzi, benissimo – e riesce a essere molto coinvolgente. Ma. Esiste una cosa chiamata “Show, don’t tell” e all’interno de ‘L’imprevedibilità del bene’ ci hanno sputato sopra senza il minimo rimorso. Letteralmente, “Mostra, non raccontare”. Alla quinta volta che i personaggi si descrivono a vicenda e offrono al lettore una psicoanalisi che Freud spostati, io personalmente comincio ad annoiarmi, perché non devo essere tenuta per mano durante la lettura di un testo.