Lezioni sul «Don Chisciotte»
Un’indagine poliziesca alla ricerca del «misterioso fremito dell’arte».
«Ci troviamo davanti a un fenomeno interessante: un personaggio letterario che, piano piano, va perdendo contatto con il libro che l’ha partorito, abbandona la terra natia e la scrivania del suo creatore e, dopo aver girovagato per la Spagna, inizia a girovagare nello spazio. In definitiva, Don Chisciotte è più grande ora di quanto non fosse nel grembo di Cervantes. Ha cavalcato le giungle e le tundre del pensiero umano per trecentocinquant’anni – guadagnando vitalità e statura. Non ridiamo più di lui. Il suo blasone è la pietà, il suo stendardo la bellezza. È assurto a emblema di gentilezza, disperazione, purezza, altruismo e galanteria. La parodia si è trasformata in pietra di paragone».
Nel 1952 Nabokov viene invitato a tenere a Harvard la seconda parte di un corso di storia della letteratura, che doveva di necessità prendere avvio dal Don Chisciotte. Docente ormai sperimentato, ma sempre anomalo e temerario, Nabokov si premura anzitutto di spiazzare il suo uditorio: liquida in fretta, non senza guizzi beffardi, quelle coordinate storico-letterarie e geografiche che qualsiasi probo universitario riterrebbe essenziali; ridimensiona l’importanza del Don Chisciotte, ascrivibile ai suoi occhi solo al protagonista, che «spicca così magnificamente sulla linea dell’orizzonte letterario»; e, ligio al suo compito di «guida ciarliera dai piedi stanchi», pilota imperiosamente i seicento studenti-turisti verso il clou della visita. Vale a dire la fabbrica del romanzo, la sua architettura, indagata attraverso gli «espedienti strutturali» – dal riuso di vecchi romances ai vividi dialoghi, dal tema cavalleresco alle novelle interpolate – che ne garantiscono la coesione. Con la feroce, minuziosa passione del detective e del filologo, Nabokov si spinge fino a schedare i quaranta episodi in cui Don Chisciotte appare nelle vesti di cavaliere errante per calcolare il numero di vittorie e di sconfitte: esercizio tutt’altro che ozioso, visto che dal risultato – venti e venti, equilibrio perfetto – affiora il «senso segreto della scrittura». Nient’altro, del resto, conta nelle questioni letterarie, nient’altro il buon lettore deve cogliere, se non «il misterioso fremito dell’arte».
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