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E' il viaggiare dei vagabondi, dei senza patria, dei giovani (e non potrebbe essere altrimenti, visto che i primi scritti raccolti in questo volume risalgono alla fine degli anni '30; la Ortese, nata nel 1914, aveva, a quell'epoca, 25 anni o giù di lì), quello che Anna (spesso senza soldi né alloggi sicuri, né amici che abbiano tempo da dedicarle) racconta in questi articoli/reportages di viaggio scritti in un periodo che va dal '39 al '64. Simile allo sperdersi narrato da Steinbeck in "Viaggio con Charley" ("Io nacqui sperso e non mi fa piacere essere ritrovato"), il muoversi della O. sembra non avere meta, né punti fermi (viaggiare per conoscere); nessun luogo incontrato in queste sue inarrestabili peregrinazioni, d'altra parte, è, agli occhi dell'autrice, casa sua, poiché nessuno di essi replica, al suo interno, la forma di lei a tal punto da riuscire a chiudersi intorno al suo corpo sottile, alla sua bella, santa testa (ornata d'una corona di lucenti capelli corvini), per preservarla, per accoglierla (senza farla sentire straniera, o mendica, non dico d'amore, ma almeno della considerazione che una mente come la sua senza dubbio meritava), per arrestare, in un tenero abbraccio, la sua voglia di correre via, verso un altrove che, per quanto noto, appare costantemente nuovo (soprattutto perché filtrato dallo sguardo ingenuo, eppure profondissimo di Anna, dalla lente scura del suo animo inquieto). Sospinta da una curiosa, mai soddisfatta insofferenza (e costantemente attraversata da brividi di paura, in virtù dei quali la sentiamo ancora più vicina), verso destinazioni uguali e diverse, ella vola (uccello leggero, sostanza e spirito, anima nuda) e, trasportata dagli oscuri vagoni di un treno o dai piccoli sedili di una Topolino, ci porta a conoscere città straordinarie, per quanto immancabilmente appestate da uno spirito di triste, inevitabile decadenza (che la O. riesce a scorgere, oltre le beate apparenze), da una natura assoluta e spaventosa: Parigi (con le sue scalinate, la sua atmosfera sospesa, le sue case buie; in cima ad una scala, un uomo, un avvocato, che, in pieno stile balzacano, rischiara gli ultimi scalini della rampa con il lume di una piccola, rattrappita candela), Roma (e la sua anima fuggitiva), Napoli, Venezia (pizzo, decoro sottile di volute di nebbia azzurra, sospesa sopra le acque torbide della laguna; Venezia che è una stanza bianca, nido speciale dove potersi, finalmente, ristorare), Londra, Genova (Genova! Case nere, vicoli bui, corse per tenebrosi sentieri di montagna), Palermo, Mosca, Milano (in "L'uomo d'acqua e un dialogo" e altri; l'uomo d'acqua non è altro che la statua di San Francesco la quale, gettando, sulla città, uno sguardo benevolo, quasi materno, accoglie e conforta viaggiatori sperduti), Bologna, Firenze (città, luoghi che ho visitato anch'io e che ho potuto facilmente riconoscere; i bianchi e gli azzurri assoluti del Gargano, la freschezza dei paeselli della costa ligure); e poi la gente, le genti italiche (i siciliani dagli occhi come soli neri, gentili, le voci sottili, i modi misurati, ad esempio, o ancora i napoletani ed i romani, con le rispettive, notissime peculiarità) e quelle straniere, fotografata attraverso una straordinaria galleria di ritratti (completata da quelli, altrettanto pregevoli, di intellettuali nostrani: l'amico Domenico Rea, Moravia, la De Cespedes, la Aleramo, la Bellonci, e altri).
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