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Vedo “La consistenza della verza”, l’ ultimo romanzo di Bernardino Mattioli, come la conclusione di un’ideale trilogia, iniziata con “Tutto d’un fiato, altrimenti si deposita” e proseguita con “Testimone di un eccesso”. C’è un percorso nella sua scrittura, un progresso, un maturare, uno scavare sempre più consapevole nella sua esistenza. Un movimento carsico lento ma inesorabile che porta con sé tutto il proprio vissuto, dalle profondità delle viscere, sempre più su, fino a condurlo a cielo aperto, ben visibile e sezionabile, permettendo all’ autore, come un cercatore del Klondike, di setacciare la propria memoria, (trasfigurando il tutto in una simbolica reclusione), per trovare nel fango dei dolori, pepite d’oro. E di pepite d’oro ce ne sono tante. Un esempio: “Ricordo di aver provato gioia nel partire, gioia anche nel rimanere e quando queste due sensazioni guidavano il mio spirito mi sentivo ovunque, e ovunque fossi facevo parte dello stesso viaggio.” Ma potrei citarne molte altre. Scrivere per Mattioli è indagare se stesso, mettersi a nudo, senza compromessi, senza paura di illuminare anche gli anfratti più oscuri, senza paura di scandalizzare o sconvolgere i nostri animi. Lui è così, non fa prigionieri (a differenza di Severino), prendere o lasciare. Chi cerca rassicurazioni tra queste pagine sarà in difficoltà inizialmente, ma poi, entrando nella testa di Girolamo, ci si rispecchierà, troverà risonanze con se stesso, con il proprio vissuto, i propri desideri più inconfessabili e capirà che ne è valsa la pena. Chi cerca invece nella narrativa sfide e occasioni di autoanalisi, a chi piace rischiare, a chi piace giocare con il proprio ego più dark, troverà in questo testo una compagnia insostituibile. Il protagonista è in carcere (ma chi di noi in fondo non lo è?). Ha ucciso, quasi inconsapevolmente una donna e i suoi figli (alzi la mano chi non ha pensato almeno una volta a Mersalult di Albert Camus e la sua candida colpevolezza) e trascorre i suoi giorni meditando sulla società e sulla vita, cosa lo abbia portato a quel delitto e attendendo le visite del suo figlio adottivo Severino. Forse è vero che gli scrittori hanno delle antenne con le quali sono in grado di intercettare lo Zeitgeist (spirito del tempo) e forse anche a leggere il futuro, altrimenti come spiegare la sensazione di familiarità con la condizione del protagonista, chiuso tra quattro mura a “rimuginar se stesso” come diceva Adolph Klotz? Non lo abbiamo fatto tutti noi in questi mesi di lockdown? Un libro solo apparentemente semplice, ma scritto e pianificato con estrema attenzione. Una creazione densa e ricca, piena di significati sconosciuti e qualità formali. Leggetelo e riflettete sulla ipocrisia della nostra società, strappate il velo di maya che vi rende ciechi e riprendete in mano le vostre vere vite (Alessandro Dal Cin)
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