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Un libro diario-realistico e senza paura di sorta, quasi crudele nella sua essenzialità, ma vero fino in fondo: nell’intimo dell’intimo, e la cui lettura fa bene. L’autrice ci propone, senza infingimenti, un resoconto tutto da leggere, tutto da meditare, tutto da condividere dalla prima parola all’ultima. Daniela, questo il suo nome, in quanto docente di Scienze, dimostra di essere ben addentro alle segrete cose che riguardano la conoscenza del corpo femminile, ma è anche film-maker e come tale, al “Genova Film Festival” nel luglio 2014 ebbe l’occasione – emozionandosi – di incontrare (vedi foto a pag. 9), fare la conoscenza ed essere incoraggiata dal produttore e sceneggiatore Enrico Vanzina, fratello di Carlo, figli entrambi del regista Steno (pseud. di Stefano): tre personalità di spicco del cinema italiano. Chi scrive ha letto il libro di Daniela Sgambelluri pagina per pagina, soppesando le parole di chi, passata attraverso la malattia tumorale, ne ha voluto (e saputo) uscire con la caparbietà, la forza d’animo e la dignità di donna forte, col coraggio di voler continuare a vivere, col desiderio di non mollare mai, neanche difronte alle asportazioni di organi e alle cure forti della chemioterapia, neanche di fronte alla contemporanea dolorosissima morte del padre settantacinquenne, cui era molto legata. Nell’opera ben curata dalla genovese “Eidon Edizioni” la descrizione si sviluppa e procede consapevolmente con fredda precisione e alto grado di competenza terminologica dal piglio medico-scientifico, come dimostrano il “Glossario” con i suoi sessantaquattro termini definiti con estrema precisione e le trentaquattro “Foto”, quasi tutte a colori e scattate dall’autrice stessa. C’è da dire che Daniela, nonostante tutto e nonostante la gravità del male che ha dovuto affrontare, non si piange mai addosso, anzi nel suo coraggioso libro-diario di una malattia tanto grave vi serpeggia un pizzico di autoironia che, in parte, tende a sdrammatizzare l’insieme e a valorizzare, nel contempo, la sua forte e consapevole personalità. Poco più che quarantenne, la giovane donna, in tutta sincerità e senza falsi pudori, si mette continuamente in gioco manifestando una intensa sensibilità e una determinata capacità di capire se stessa “in relazione” agli altri: tanto gli amici veri, quanto gli amici fasulli. Ho detto – e lo ripeto qui – che Daniela non si piange mai addosso, semmai pretende dagli amici e da coloro che le sono vicino (una settantina “i nomi delle persone” che ringrazia elencandole a pag. 189) onestà di comportamento e onestà di rapporto, anche se con la debita durezza. E’ per questo che quanti, nel corso e decorso della sua malattia, si sono rivelati amici falsi e inaffidabili, non devono più far parte (e lo esprime con chiarezza) della sua vita: anche se non qui elencati, ne sono usciti definitivamente e per sempre. Ammetto che è la prima volta che mi trovo a recensire un libro “doppio” come questo: vi sono, infatti, pagine in bianco nelle quali l’autrice sprona chi legge a descrivere per filo e per segno la propria analoga esperienza, per raffrontarla con quanto lei stessa ha dovuto affrontare. Chi legge, dunque, dovrebbe (o meglio: deve) completare le pagine in bianco descrivendo le proprie personali esperienze e applicando perfino – proprio come ha fatto lei da amante incallita della fotografia – le proprie foto per belle o crude che possano apparire. Questo libro, a mio parere, non deve essere letto soltanto dalle “donne”, ma deve essere letto e meditato specialmente dagli “uomini” perché contiene tante verità: piccole e grandi, di cui le une e gli altri hanno l’obbligo d’essere al corrente e diventarne consci. Si legga per intero la gioiosa pagina 173: in essa Daniela esalta la funzione primaria che, nella malattia, assumono i sensi; dà suggerimenti su come, col gioco e nel gioco, si debba affrontarla per grave che sia; dice – riporto integralmente le sue parole magiche davvero – di averlo appreso “da un bambino di quattro anni e senza capelli, in una sala giochi di un ospedale. Lui continuava a giocare e a sorridermi, ignaro o consapevole di tutto ma sereno.” In chiusura voglio ricordare che l’autrice afferma di aver dato vita al presente diario e di avere scritto questo suo libro principalmente per se stessa “con finalità terapeutica”. Qui, però, sono portato a contestarla almeno in parte: non si scrive mai solo per se stessi perché, seppur inconsciamente, ogni autore si augura che il proprio libro venga letto da altri: per giunta qui l’autrice lo dimostra concretamente poiché s’aspetta “risposte, commenti e foto” da chi è passato attraverso le sue medesime traversie. Grazie Daniela!
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