Sono trascorsi dieci anni da quando il sorriso cordiale e riservato di Leopoldo Pirelli si è spento per sempre. Una raccolta di sue «carte parlanti» non poteva che essere breve, sintetica e sobria, come lui era e avrebbe sollecitato. Carte scelte dagli appunti privati, dai documenti pubblici, dalle interviste, dalle lettere agli amici di un imprenditore gentiluomo che sentiva il peso morale e sociale di appartenere alla categoria dei «cittadini dirigenti di un’azienda». «Perché dirigenti – scriveva – non si è soltanto all’interno di un’azienda, ma anche nella vita del Paese», con doveri aggiunti, e pesanti, «che derivano dai privilegi di cui godiamo rispetto agli altri cittadini». Esperienze e riflessioni è il ritratto breve del capitano d’industria, e leader dei capitani d’industria, che mai nascose la sua più grande delusione: che non fosse stato capito e accettato il famoso «pacchetto» con cui, nel 1969, l’azienda Pirelli proponeva ai dipendenti una riforma del lavoro che prevedeva 40 ore settimanali, turni flessibili, lavoro ridotto per le donne, scaglionamento delle ferie; condizioni sorprendentemente sindacali che, forse solo per il modo verticale del loro proporsi, colsero il loro tempo impreparato ad accoglierle. Poche parole, di suo pugno, per ricordare le mai esibite qualità di una persona etica che si riconosceva in un artista come Claudio Abbado, musicista profondo, direttore dal gesto essenziale, «uomo parco nel parlare, che considerava quella dell’ascolto la più alta virtù»; e in un artista-architetto come Gio Ponti, che nel progettare il grattacielo simbolo non solo della Pirelli, ma di Milano stessa in un passo cruciale della sua storia, diceva: «bisogna ascoltare l’edificio come esso chiede di essere». Ovvero «forma finita, perfetta, al punto che nulla puoi aggiungervi o togliergli», ripeteva l’architetto. Con l’assenso e il sorriso di Leopoldo.
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