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La Germania, «colosso asiatico» piantato nel cuore dell’Europa, rimane il paese-chiave del Vecchio Continente, non solo per l’estensione e la centralità geografica, ma più ancora per la sua sempre sfuggente identità: in bilico tra Oriente e Occidente, tra il richiamo delle steppe eurasiatiche e le luci della modernità atlantica e liberale. È possibile individuare alcuni fili per orientarsi nella selva tedesca?
Flavio Cuniberto risponde a questa domanda proponendo l’idea che la diversità tedesca sia riconducibile a una latente impronta sciamanica, al persistere di un mimetismo originario la cui operazione fondamentale consiste nel captare le forme esterne «per risonanza». In quel laboratorio formidabile che è il primo romanticismo la costante sciamanica si evolve in una direzione dove lo sciamano cede il posto al mago: è l’impronta faustiana del germanesimo, un culto dell’artificio assoluto in grado di surrogare o sostituire la realtà stessa. La Germania moderna è la terra più congeniale ai ritorni, al riaffiorare delle potenze arcaiche. E se il ritorno di Wotan e del suo corteggio ha effetti devastanti, la memoria tedesca si apre anche a ritorni di altro segno: è il caso della grande filosofia tedesca, nella quale un paziente lavoro di scavo può rilevare, qua e là, le tracce inconfondibili di una metafisica non solo occidentale. È qui che Kant e Heidegger ritrovano Platone, il più «orientale» di tutti i filosofi, e una figura come quella di Walter Benjamin ritrova il più «orientale» dei grandi tedeschi: Jakob Böhme, il «philosophus teutonicus» appunto.
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