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Quelli dalle labbra bianche di Francesco Masala Francesco Masala non ha bisogno di preamboli ed è ora che si parli di lui, grande poeta e scrittore sardo di qualità, quella che serve per acquisire magnificenza in letteratura. Presenza culturale costante in ambito culturale e politico, fu sempre dalla parte dei vinti, degli ultimi e per questo spesso emarginato e ignorato anche dalla stampa quotidiana, con la quale in passato aveva collaborato a lungo. Isolato dall’establishment isolano - una sorta di Silone sardo -, mantenne un legame con il Sindacato etnico, nel cui II congresso, in polemica con il Psd’AZ, ebbe a dire “M’est abarrada feti sa CSS”. Nato a Nughedu San Nicolò (SS) nel 1916, laureato in Lettere a Roma, ferito sul fronte russo durante la seconda guerra mondiale, fu uno dei pochi reduci di quella ignobile spedizione. Insegnò per 30 anni nelle Scuole superiori, vinse diversi premi letterari, fu presidente del premio Ozieri e delle prime edizioni dell’alerese premio Gramsci. Appassionato di teatro, scrisse, tra gli altri, per il Teatro di Sardegna, Su connotu e Carrasegare. Nel 1978 fu tra i fondatori de su Comitadu pro sa limba sarda, e portò avanti la battaglia per il bilinguismo in Sardegna fino alla fine dei suoi giorni, sopraggiunta a Cagliari il 23 gennaio 2007. Francesco Masala prediligeva la poesia, desiderava essere ricordato per i suoi versi e quando scelse dei brani per l’incipit del libro “Per Gramsci…” volle che venissero pubblicate “Cantone de sos bestidos de biancu” e “Cantone de s’omine in su fossu”, tratte da “Poesias in duas limbas”. Tra le altre sue opere ricordo “Il riso sardonico”, “Storia dell’acqua in Sardegna”, “S’Istoria” e l’antologia in due volumi che raccoglie tutte le sue “Opere”, edita da Alfa. “Quelli dalle labbra bianche” è il suo lavoro più noto, e vanta - insieme con le poesie, tante ispirate dalla medesima vicenda - più traduzioni all’estero, ne è stato tratto anche il film di Piero Livi “Sos laribiancos”. Racconta della vita misera e tranquilla del villaggio di Arasolè, turbata improvvisamente nel 1941 dalla chiamata alle armi - da parte del regime fascista - dei suoi giovani, per la campagna di Russia. Un gruppetto di artigiani e operai abbandonano il paese, con l’unico rampollo della nobiltà locale, lasciando mogli, madri e figli, per il fronte orientale, di cui non sanno assolutamente nulla. In trincea (il fosso che spesso ricorre nei versi), il tempo è passato e i sardi, abbandonati da un esercito allo sbando, muoiono di fame, di freddo e di bombe. In mente fino in fondo, il sarcasmo, i loro nomignoli, il paese. Mammutone. (…) travestito con una pelle di capra, con le spalle e il collo carichi di campanacci di bue, e col volto coperto da una bruttissima maschera di legno nero (…) Un naso enorme, due occhi sbarrati, e una grande bocca stravolta da una smorfia di dolore. (…) Il succo del destino di Arasolè. Da una parte gli Insocatores, i vincitori, gli aguzzini, i ricchi; e, dall’altra parte, i mammutones, i vinti, i prigionieri, i poveri, quelli dalle labbra bianche. L’edizione de “Il maestrale” pubblica nello stesso volume anche “Il parroco di Arasolè”, un monologo sul conflitto interiore del curato del villaggio, trasferito a Sarrok, ove però è dominus “Il dio petrolio” (titolo originale), che pretende si lavori anche di domenica e in tutti i giorni di festa. (Ed. Il Maestrale, Nuoro 2008) Massimo Pistis from "Nuovo cammino" 22/2015
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