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Perché un “professore” lavora in una pensione romana frequentata da personaggi ambigui,come tuttofare sfruttato? E si esprime con un linguaggio così disarticolato, povero, ripetitivo, a volte onomatopeico? In “Notizie dagli scavi” Lucentini ci conduce nella mente di un ritardato, chiamato ironicamente “professore”, e ci fa raccontare la storia dal suo punto di vista, in prima persona. Volutamente scritto in un italiano incerto, il racconto è un viaggio nel disagio individuale, che ben presto si rivela essere disagio collettivo. Il professore, infatti, delegato ad incontrare una ex prostituta, frequentatrice della "pensione" e aspirante suicida, s’imbatte negli scavi di Villa Adriana, e lì, nell’apprendere le difficoltà di datazione relative agli scavi stessi, intuisce che la realtà è disordinata, caotica, difficile da comprendere, non solo per lui, ma per tutti. Tale scoperta, tuttavia, non si risolve in una visione pessimistica della realtà. Nell’altro, nella scoperta che anche l’altro vive lo stesso disordine, si può cercare quel senso umano che non si può racchiudere in alcuna parola.
La casa editrice Avagliano ha ristampato nel 2000 questo racconto lungo scritto nel 1964 da Franco Lucentini, l’ultimo romanzo dei tre che firmò al singolare -gli altri due sono La porta (1947) e I compagni sconosciuti (1951). Poi, dopo aver conosciuto a Parigi Carlo Fruttero, si trasferì a Torino e con lui sviluppò un sodalizio letterario, entrambi appassionati di giallo, di fantascienza e di umorismo. Fu una grande amicizia. Notizie degli scavi è un racconto bellissimo. Da leggere anche due volte perché il linguaggio di chi narra in prima persona è quello di una persona molto particolare che ha un fraseggio libero, istintivo, senza convenzioni. È uno scorrere di pensieri che diventano parole ad alta voce e si esprimono senza filtri, che vengono lasciati correre e poi si incagliano quando un fatto o le parole di altri interrompono il corso. Il tutto mescolato al groviglio umanissimo di sentimenti e di suggestioni provocati dai rapporti con le persone, che qui sono la Gina, la Wanda, la Lea, con cui lui condivide le stanze della pensione che è un bordello. Fa le commissioni, aspetta le signore dopo averle accompagnate agli appuntamenti, fa visita a una che dopo aver tentato il suicidio è in ospedale. Lei lo aspetta, gli trattiene la mano sul lenzuolo e gli chiede di tornare al successivo orario di visita, mentre una monaca entra con il termometro, poi ritorna, un tipo prende le tazze e le mette su un carretto traballante e che va di sghembo …tutto un movimento, un andare/venire laborioso fino al campanello di fine-visite, e poi di nuovo per la Marchesa c’è l’attesa, la speranza, il desiderio e la disperazione per come vanno le cose nella sua vita. Lui è chiamato il professore, senza offendersi si lascia chiamare così, lui sa fare le operazioni in colonna e a mente e sa anche muoversi bene nel suo ruolo nella pensione, ha dei limiti, però, dei fermo-immagine nei suoi pensieri. Il vuoto che c’è al posto della sua capacità di comprensione è occupato dalle fissazioni, da comportamenti bizzarri del tutto pacifici e innocenti che fanno sorridere nella loro mania. Con Lea seduto a un caffè, mentre lei racconta di un’occasione amorosa che non poteva lasciarsi sfuggire, lui analizza e calcola se è “brutto” prendere l’ultimo bignè dal vassoio. “Alzavo e abbassavo questa gratella, mentre quella continuava a parlare” e Lea racconta di Ostia, della Marchesa che si ingelosisce “(…) perché poi magari se era zabaione nemmeno mi piaceva tanto. Ma mi dispiaceva se invece era crema”, del fatto che la Marchesa doveva capire, era un’occasione -fino al liberatorio “Scusa, tu lo mangi, questo bignè?” quando Lea era già scoppiata in un pianto e in Oddìo, Oddioddìo, e poi la conclusione tragica della vicenda “E s’è sparata!”. E lui: “Questa non ci voleva. Il bignè era meglio che lo lasciavo stare”. E poi la storia dei numeri contati in colonna e poi quella fissazione delle righe nel pavimento del tram, sporche e ripiene di carte e di mozziconi… E la visita agli scavi della Villa di Adriana, a Tivoli che per un momento risvegliano degli interrogativi e fanno pensare che nulla è certo, veramente certo, addirittura reale come i pezzi nella vetrina con la serranda abbassata “(…) altri pezzi che non si capiva, e in mezzo a questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era.” Dei riflessi nel vetro che risvegliano una consapevolezza nuova, o forse è di nuovo un pensiero che si è messo in obliquo.
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