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Centocinquantasette giorni. Questo il lasso di tempo utilizzato dai nazisti per dichiarare Salonicco “Judenfrei”, città ripulita dal germe ebraico. A gestire il programma di deportazione degli oltre cinquantamila residenti di origine giudaica, nel febbraio 1943 Eichmann aveva spedito i capitani delle SS Alois Brunner e Dieter Wislincey: due specialisti della Soluzione finale che avevano già operato con successo nei territori dell’est Europa. Proprio in quella coda d’inverno a Villa Olgas, piccolo gioiello di architettura eclettica e sede della rappresentanza diplomatica italiana a Salonicco, il console Guelfo Zamboni cominciò a lavorare ad un piano finalizzato alla messa in sicurezza dei circa 300 ebrei di origine italiana e di quelli greci che lavoravano per imprese italiane. Un progetto all’apparenza semplice, ma anche estremamente compromettente sotto il profilo istituzionale, che prevedeva la concessione dello status di cittadini italiani a quanti più ebrei possibili, connazionali e non. A coadiuvare l’iniziativa di Zamboni (che sarà condivisa e continuata da Giuseppe Castruccio, che gli succederà nell’incarico nel giugno dello stesso anno) sarà un piccolo gruppo di connazionali, tra cui gli agenti del Servizio informazioni militare (SIM), Riccardo Rosenberg ed Emilio Neri, e il capitano del Regio Esercito Lucillo Merci. Quest’ultimo, un quarantenne direttore didattico bolzanino, che la guerra aveva catapultato in Grecia, è l’autore di un manoscritto di straordinario interesse storico, che apre inediti scenari (comprese delle presunte responsabilità degli inglesi e di quanti avrebbero potuto fare qualcosa per contenere la dimensione del massacro) su quello che, dopo più di quattro secoli di esistenza, fu il capitolo finale della Gerusalemme dei Balcani
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