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“Finta finta” è il modo in cui i bambini mozambicani chiamano il gioco del calcio, dal verbo portoghese fintar, fare uma finta, dribblare. La giornalista italiana Paola Rolletta, da anni in Mozambico, racconta le storie di tanti calciatori e allenatori prestigiosi, nati in questo paese, che da bambini, in spiazzi di terra rossa, o sabbia, o acquitrini hanno coltivato il loro sogno. Con il corpo che, come scrive João Paulo Coelho nella sua prefazione, andava adattandosi a quel sogno allo stesso tempo in cui si forgiava e lo forgiava. Con il mitico pallone di stracci, di striscie di plastica, di budella di bue, di gomma, che accomuna i bambini poveri del mondo, in qualunque continente, in qualunque epoca; figli di un mondo ancora preindustriale o a questo parallelo. E la straordinaria abilità e fantasia che trasforma stracci, plasticca, budella - scarti del benessere- passa dalle mani ai piedi, spesso scalzi, compiendo meraviglie, imparando a costruire il sogno, prendendo a calci la miseria, la sorte. Uno sport che molti sognavano anche come riscatto sociale e “razziale”, e che, come scrive Galeano ne “Il calcio: sole ed ombra” a propósito di Eusébio, fa correre “come corre solo qualcuno che fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i calcagni”. “Erano i tempi”, scrive Paola Rolletta, “in cui la miseria li preparava per il calcio o per il crimine. E fra una partita e l’altra, era necessario dribblare la povertà”. Uno sport che in Mozambico rappresentava anche l’unico campo in cui era possibile almeno un simulacro di integrazione, contribuendo così ad avanzare nella lotta contro il razzismo durante il periodo coloniale. La storia di questi bambini, futuri campioni, comincia negli anni '50 e arriva ai nostri giorni e Paola Rolletta ce la racconta ricorrendo a testimonianze, a interviste, ad aneddoti, rivelandoci cosi la sua passione per il calcio, passione che condivide com altri scrittori mozambicani come José Craveirinha che era stato anche allenatore e che, come dice Hilário da Conceição, fu “l’uomo che ci allevò, che ci inculcò il gusto per lo sport, che ci aiutò a praticare tutte le modalità per allontanarci dalle tentazioni della strada, per farci crescere come uomini!”. Perché come afferma Juca “Con la disciplina del calcio si formano i cittadini; giocare una partita contro l’avversario è come lottare contro i problemi della vita”. Finta finta è um libro sul calcio, ma è anche um libro sulla Storia attraversando i diversi periodi, dalla dominazione coloniale, dalla colonia “ultramarina”, dalle leggi sulla assimilazione, dall’ombra spietata della PIDE, la polizia politica portoghese, agli incontri con i leader africani delle future indipendenze – Agostinho Neto, Marcelino dos Santos, Amilcar Cabral...- alla lotta per l’indipendenza, alla costruzione di una nazione, ai nuovi cambiamenti politici e sociali. È un libro sulla letteratura del Mozambico con le molte citazioni di scrittori come Mia Couto, João Paulo Coelho, Luis Carlos Patraquím, Luis Bernardo Honwana, Ungulani Ba Ka Khossa, risalendo fino al “Brado Africano”, la rivista dei Fratelli Albasini in cui si cominciò a forgiare il concetto di “mozambicanità”, quell’identità nazionale che si contrapponeva alla supremazia coloniale e all’assimilazione. Tanti sono gli scrittori che hanno amato il calcio, da Galeano a Soriano, da Saba a Pasolini, a Benni ...solo per citarne alcuni. E in molti è presente la nostalgia per uno sport povero, alla portata di tutti. Quel calcio che, come dice Miglietti “era fatto con l’allegria e la voglia di mostrare le proprie capacità come giocatore. Oggi questo calcio non esiste perché l’interesse economico viene al primo posto”. Uno sport in cui la fantasia era più importante delle gambe, in cui il gioco, l’amicizia, lo scambio era tutto cio su cui i “celestini” di tutto il mondo imparavano la vita, imparavano a perdere senza sentirsi sconfitti, imparavano, a volte, anche a vincere senza l’arroganza dei vincitori, imparavano a “dribblare”, a schivare, a evitare gli ostacoli e a raggiungere la meta. Gol! (Anna Fresu)
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