«Secondo me il massimo del divertimento, non della goduria, è giocar bene, meritare di vincere e vincere.»
«Bearzot ha sempre interpretato il suo ruolo con grande rigore e non occorreva entrare nello spogliatoio azzurro per capire che razza di rapporto ci fosse tra allenatore e giocatori, quale entusiasmo e quale grado di dedizione fosse capace di smuovere quel friulano tutto d'un pezzo. Un bell'esemplare davvero, il vecchio Bearzot, di razza purissima» – Indro Montanelli
Lui, Bearzot, classe 1927, oggi avrebbe 90 anni. Per tutti era il «vecio», come lo aveva soprannominato Giovanni Arpino. Ci sono persone, nel mondo dello sport come nella vita, di cui è impossibile non sentire la mancanza. Enzo Bearzot è una di queste. In molti possono limitarne il ricordo, indelebile, a quando, allenatore della Nazionale italiana, sollevò la Coppa del mondo al Santiago Bernabeu, la sera dell'11 luglio 1982, quando gli Azzurri vinsero un Mondiale contro tutto e tutti. Ma per scoprire molto altro non resta che leggere il libro che Gigi Garanzini gli ha dedicato. In una lunga intervista è Bearzot stesso a parlarci del giocatore che è stato e dell'allenatore che è diventato. Si va dall'infanzia in Friuli agli studi classici dai Gesuiti. Poi Milano, la maglia dell'Inter, Luisa, la donna conosciuta sul tram numero 3 che diventerà sua moglie. La cessione inaspettata al Catania. L'arrivo al Torino, squadra che gli rimarrà per sempre nel cuore. I primi passi come allenatore sulla panchina della Primavera granata sotto l'ala di Nereo Rocco fino alle prime esperienze in Federcalcio e l'approdo in Nazionale. La sua Nazionale. Uomini scelti da lui, contestati dai tifosi, alcuni per l'età avanzata, altri fuori allenamento e marchiati dallo scandalo del calcioscommesse, ma tutti uomini in cui il patriarca, il vecio, credeva. E che non lo hanno deluso, regalando a lui e a tutti noi quella Coppa sollevata da Zoff e applaudita da Pertini. Prefazione di Indro Montanelli.
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