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Ai margini di una delle tante città operose del nord-est, vive un personaggio, non più giovane e molto disilluso che si alza al mattino per recarsi dalla sua prigione, costruita in vetro e cemento, alla sua seconda prigione fatta di lamiera e popolata da catene di montaggio. Questa è la storia, molto visionaria e lucida della sua ultima giornata. Come una poesia ininterrotta e dolente l’ultimo romanzo di Santarossa colpisce come un diretto allo stomaco, narrando l’ultima giornata piena di tristezza e rassegnazione di un protagonista privo di identità, consapevolmente risucchiato nell’ingranaggio produttivo di cui è la particella più insignificante. Lo scrittore delle case rosse di Villanova prosegue e approfondisce le gesta di “quei nove che non ce l’hanno fatta, a fronte del solo che ha saputo avere la meglio”, tutti figli di un nord – est operoso che dalla periferia costruita ai margini della città porta direttamente al ventre della fabbrica. Un nord-est capace di trascinarti dal letto alla catena di montaggio per produrre e al tempo stesso soverchiare gli animi di coloro che del mondo capitalistico sono l’ingranaggio più debole. Una visione lucida e disperata di uno che la fabbrica, e di quei nove di cui sopra, li conosce sin troppo bene. Un caso letterario talmente meritato e deflagrante che al quarto romanzo e dopo una raccolta di “storie dal fondo”, suo lavoro di esordio, porterà Santarossa a trasporre probabilmente su celluloide le gesta di un personaggio privo di nome ma sin troppo attuale e nel quale in molti, forse troppi, si potranno rispecchiare.
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