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Anno edizione: 2019
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Il suo «romanzo d’addio» dopo tante esitazioni e numerose riscritture.
«"Little Boy" è un memoir e qualcosa di più, un'autobiografia-romanzo con un flusso di scrittura che miscela visione, filosofia e poesia» – Il Messaggero
«Non sono memorie, le memorie sono per le signore vittoriane. Non è nemmeno un’autobiografia, è semplicemente un io immaginario, il tipo di libro che ho scritto per tutta la mia vita. Diciamo che è un romanzo sperimentale»
Annunciato già da tempo, avvolto nel più fitto mistero, il libro, adottato dalla Doubleday, uno dei marchi editoriali Penguin-Random House, che lo ha fatto uscire il 29 marzo 2019, in occasione del centesimo compleanno dell'autore, è un memoir ma anche molto di più. Un'autobiografia-romanzo di stampo quasi joyciano, uno scritto visionario, filosofico, poetico, a cui Ferlinghetti, il vecchio e infinito poeta americano, il testimone più eccelso della Beat Generation, della Summer of Love e della rivoluzione hippy, ha lavorato per quasi tutta la vita. Il suo «romanzo d'addio» dopo tante esitazioni e numerose riscritture. L'edizione italiana, tradotta dalla sua fedele collaboratrice,è stata seguita direttamente dall'autore, che ha anche offerto un «saluto» ai lettori del paese di origine della sua famiglia.Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
L’ultimo delirante libro di Ferlinghetti uscito in occasione del suo compleanno centenario, che negli intenti poteva ben sembrare un’autobiografia, anche se lui stesso aveva ritenuto di sottolineare che «non sono memorie, le memorie sono per le signore vittoriane». Un «romanzo sperimentale», quindi, «semplicemente un io immaginario, il tipo di libro che ho scritto per tutta la mia vita», anche se non può negarsi che di sperimentale, nel suo interminabile stream of consciousness, ad anni dall’inevitabile fine – o ennesima evoluzione – della Beat generation, non c’è quasi nulla (reduce dalla sua lettura non si può che ringraziare la traduttrice Giada Diano, fedele collaboratrice di Ferlinghetti, che ha reso più digeribile, con un lavoro raffinatissimo, il ritmo da seduta spiritica a cui lo scrittore ha affidato ricordi e considerazioni affastellate). La sensazione che resta addosso quando ci si sgrana la vista e ci si massaggiano le tempie dopo la chiusura del volume è che Little boy, quel Little boy (che, ad uno sguardo più attento, non vuol dire soltanto “ragazzino”, ma è anche il nome della prima bomba atomica), non esiste più, si è disintegrato, quando aveva tentato di aggrapparsi non tanto alla sua esistenza straordinaria, quanto all’intero armamentario Beat, nemmeno troppo attentamente rispolverato, tra autocompiaciute strizzate d’occhio, ricordi della sua gloria furibonda e rabbiosi sospiri rivolti a un tempo che forse non si è potuto trattenere (la stessa sensazione che ho provato qualche anno fa assistendo a un concerto di Bob Dylan alle Terme di Caracalla): «io sono la coscienza di una generazione o soltanto un vecchio sciocco che sproloquia e cerca di sfuggire alla dominante avida materialista coscienza dell’America di oggi?», si chiede – e ci chiede – mr. Lawrence. Una vita sincera, pienamente vissuta, ma non altrettanto raccontata. Tocca a noi recuperare, ricostruire, custodire una ricerca culturale, quella, sì, realmente sperimentale, facendo buon uso della qualità proustiana (non è un caso che Proust venga citato spesso nel suo libro “conclusivo”) grazie alla quale il ricordo plasma nuovamente la realtà, la reinventa, dandole una sostanza inedita. Ed è solo così che possiamo trovare un modo per comprendere e apprezzare Little boy come anti-libro (e non, invece, come “il” libro, cosa che Ferlinghetti aveva lasciato intendere) o come libro figlio della controcultura in cui ha saputo trasformarsi parte della sua generazione: «generalmente le persone», affermava mr. Lawrence in un’intervista nel 2013, «con l’avanzare dell’età, sembrano diventare più conservatrici. Per quanto mi riguarda, ho l’impressione di essere diventato più radicale. La poesia deve essere capace di rispondere alla sfida di tempi apocalittici, anche se questo significa suonare altrettanto apocalittica». Inevitabile il legame col jazz, perché non si può fare a meno di leggere Little boy assecondando un ritmo che si forma sempre più nettamente nella nostra mente, quando, poco dopo pagina 20, la punteggiatura si dirada fino a perdersi completamente per tutto il resto del libro, lungo la psichedelia concettuale delle parole dello scrittore, capaci di dar vita a una furiosa sonata in cui tutto è interconnesso secondo un flusso ibrido fatto di memoria, realtà, sogno, finzione.
Alcuni libri ti entusiasmano come un canto nuovo, come una musica neopsichedelica. Questo urlo giunge da 101 anni anni di vita e viaggio sulla strada della mente (la mente di un certo Lawrence Ferlinghetti, nato nel 1919, lo stesso anno di Salinger e Peete Seeger). LITTLE BOY è il libro che cercavo da anni, il libro che legittima e condivide la totale insensatezza della trama e dei presupposti alla sua base, un romanzo senza trama (il che sembrerebbe una contraddizione ma è invece semplicemente realistica descrizione della vita...cos‘è più reale infatti se non l‘assenza di trama). Le sterzate improvvise della mente, il ricordo che perde il suo legame col passato e la sua collocazione a priori per mescolarsi al presente e viverlo e modificarlo e confondervisi. FERLINGHETTI e il suo grido contemporaneo, il suo canto gracchiante e stonato contro l‘insensatezza (o a favore di essa?) Grande è la delusione per l‘uomo di massa, discreta - e forse solo per amore- la sua fiducia nell‘individuo. Un grande pianto per gli sguardi persi dietro la macchina illuminata delle visioni multimediali. Una vita lunga che si condensa nell‘ unica verità del presente. UNICA PAROLA: UMANO.
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