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Le prime righe del romanzo
La spiaggia libera era un deserto esotico. Dopo tanti giorni di pioggia, la sabbia umida e compatta, tra le dune e gli sterpi, sembrava fatta apposta per giocare a pallone. Ma i tre ragazzini erano arrivati troppo presto e non trovarono i loro amici. Da una radiolina lontana giungeva distorta la voce aspra di Rocky Roberts:
Stasera mi butto
Mi butto con te
Per passare il tempo, decisero di fare un giro. Ripresero le biciclette e tornarono sullo stradone. Le macchine non rallentavano neppure, sfrecciavano come se fossero sull’autostrada. Una Seicento suonò rabbiosa il clacson, appena cercarono di mettere le ruote sull’asfalto.
Quando fu possibile, attraversarono in fretta. Dall’altra parte c’era un largo marciapiede sconnesso, tutto buche e sterpaglia. Pedalarono verso nord, in direzione dell’aeroporto. Udirono il rumore imballato di un aeroplano a elica, una delle vecchie carrette che andavano su e giù per il litorale. Uno degli ultimi, la stagione era alla fine. Lo videro spuntare dalla macchia, pericolosamente basso, e poi virare verso sud. Sul mare spiegò la sua lunga coda pubblicitaria della Crema Nivea. Sopra gli stabilimenti balneari – una catena ininterrotta di venti chilometri – avrebbe lanciato centinaia di réclame, attaccate a minuscoli paracadute.
Il campo d’aviazione era vicino al mare, ma i tre ragazzini non lo vedevano, perché era nascosto dalle piante: pini bruciati dalla salsedine e dall’inquinamento, lecci, querce e fitto sottobosco. Voltarono alla prima strada a destra e presero la via interna, parallela al lungomare. All’ombra degli alberi faceva quasi fresco, benché fosse ancora agosto, e affrettarono il ritmo delle pedalate. Arrivarono al canale di drenaggio, inquinato e pieno di schiuma, che scendeva dalla montagna. Affrontarono la gobba del ponte, dando un’occhiata ai motoscafi e alle barche da pesca del minuscolo ormeggio. Anche lì galleggiavano larghe macchie oleose e i bianchi residui dei detersivi vomitati dalle fogne. C’era un odore misto di marcio e di chimica. Fecero un ultimo sforzo sui pedali e poi si godettero la discesa, gridando di soddisfazione.
Nella strada interna non c’era nessuno, a quell’ora, tranne un gruppo di donne vestite di nero. Arrivarono al semaforo e poi finalmente alla spianata dell’aeroporto. Rimasero per un po’ a guardare gli aeroplani privati e gli elicotteri, fermi sulla pista di terra battuta. Avevano ormai dimenticato i loro amici e la partita, sarebbero tornati in spiaggia più tardi, oppure nel pomeriggio.
Dopo l’aeroporto la macchia era molto fitta, con alberi vecchi e alti, in un intrico di rovi. Decisero di spingersi nell’interno, costeggiando il fosso piccolo. Era poco più di una fogna scoperta, riparata solo da due bassi argini di terra, che segnava il confine tra la pineta e le vaste tenute delle poche ville nascoste. Il fetore dell’inquinamento prendeva allo stomaco, ma i ragazzini si incantarono a guardare la densa schiuma dei detersivi, uguale a quella che facevano vedere alla televisione, nella pubblicità di Carosello: galleggiava lentissima sul fosso gonfio d’acqua, frenata dalle canne. Una piccola automobile, che correva all’impazzata per la stradina, li mise quasi sotto.
Il sole era già alto ed erano fradici di sudore. Appoggiarono le biciclette per terra e si misero a tirare i sassi nella schiuma. Facevano un curioso effetto: la massa bianca mandava un rumore di risucchio e sulla superficie si formavano dei piccoli crateri. Il più grande dei tre ragazzi, che aveva quasi quindici anni, andò a prendere una grande pietra. Faceva fatica a portarla, tra le risate dei suoi amici. Ma voleva fare il gradasso e l’alzò sbuffando sopra la testa, tutto rosso in viso.
Quando la scagliò, la pietra produsse un rumore strano. Videro per prima cosa una mano e un braccio, che dalle spume si alzavano verso il cielo, e poi qualcosa di grosso e nero che si girava. Dal bianco emerse una faccia che li guardò con degli occhi aperti che sembravano vivi.
Le risate morirono subito.