Monica Ojeda ritorna in libreria con Nefando, romanzo antecedente a Mandibula, il cui titolo rispecchia in pieno il valore letterario dell’opera. Non c’è letteratura peggiore di quella che lascia indifferenti anche di fronte a testi come questo che cercano in tutti modi di creare stupore sotto ogni forma e dove si palesa l’evidente ambizione dell’autrice di costruire una storia dalla prosa sperimentale e dalla trama complessa, a tratti abominevole e cruda oltre misura. I temi sono molteplici si spazia dal deep web alla pedofilia fino al sesso sfrenato, scambio di fluidi, parafilie, ragnatele oscure, violenza efferata fino a dissertazioni pseudo filosofiche, eppure l’eccesso di accademismo e le forzature prosaiche minano l’apparato narrativo dimostrandosi più un esercizio di stile mirato a soddisfare e nutrire l’ego dell’autrice, ovvero un esibizione di snobismo. La prosa si presenta metaforica e densa di simbolismi ma risulta per gran parte pretenziosa sia nella forma che nella sostanza, trasformando sin da subito la preziosità lirica in una narrazione noiosa soprattutto per l’incapacità di saper miscelare le voci dei personaggi che, a parte i cliché regionali, risultano essere tecnicamente identici e soporiferi nonostante vagonate di perversioni sessuali. Molte le citazioni letterarie presenti nel libro, tuttavia non sembrano avere coesione logica con la storia ma alimentano, semmai, le pretese intellettuali che sfociano nella presunzione di aver dato vita ad un’opera dirompente e fuori dagli schemi. Contorto, infruttuoso e mesto. In sostanza PESSIMO.
