Scrivere la recensione di un libro significa esaminare le due componenti: la trama e la scrittura con eguale attenzione, come gli studiosi ci ricordano. Significa anche documentarsi dedicando non poco tempo. Certamente se è una traduzione, come il libro di Barnes, è un problema per quanto riguarda l’analisi della scrittura, ma non l’ho scelto io: partecipo al Laboratorio di lettura alla Libreria “Nuova Europa” e questa è stata la proposta. LA TRAMA “Niente paura” (scritto nel 2008, editato in italiano nel 2022) parla della morte e della paura della morte, ma in verità è un andare e venire tra citazioni di amici celebri dell’autore, tra ricordi e storie personali: una sorta di diario liberatorio. Io lo trovo scialbo, senza anima e attorcigliato sul nulla e autoreferenziale. Trovo, altresì, una miopia storica, nessun riferimento all’antico Egitto e alla Grecia: Epicuro scrisse contro la paura della morte e Lucrezio, nel “De rerum natura”: «Nil igitur mors est ad nos» per esempio e non sono bazzecole. Nessun riferimento all’Antologia di Spoon River in cui Edgar Lee Masters scherza con la vita e la morte: nelle poesie si prendono gioco dell’una e dell’altra. LA SCRITTURA Come dicevo, di una opera tradotta si può dire poco, ma l’uso esagerato dei puntini di sospensione (pagina 45) e delle maiuscole non depongono a favore. Anche l’assenza di capitoli è significativa dell’autorefenzialità nella scrittura. Concludo con un’altra critica: non c’è un indice e la ragione è evidente. Caro lettore, potrei lasciare il perché in sospeso, ma il mio disappunto mi sollecita a scrivere: è la logorrea egocentrica. CONCLUSIONE Come ho scritto all’inizio la scrittura oltre alla trama è elemento saliente di un libro. Purtroppo devo prendere atto che l’attenzione a questo aspetto è scarsamente presente anche nelle recensioni più autorevoli, ahi noi. Nei Laboratori di scrittura che organizzo nelle scuole elementari, medie e all’Università, questa “signora” è al centro. 🌸
Niente paura
«La morte è dolce; ci libera dalla paura della morte», scriveva Jules Renard quand'era giovane e in salute. «Una consolazione? No, è un sofisma. O piuttosto una prova supplementare che per sconfiggere la morte e i suoi terrori ci vuole ben piú della logica e del ragionamento». Lo sa bene Julian Barnes, che dell'una e dell'altro ha sempre fatto ampio uso nel tentativo di esorcizzare la piú atavica e insuperabile delle paure, quella della morte, senza mai riuscire ad addomesticarla. Quali armi restano, dunque, all'agnostico scrittore che, per trovare sollievo dall'idea dell'estinzione, non può neppure contare sul balsamo della fede? Be', innanzitutto ricordare che, oltre a essere la piú viscerale e antica, la paura della morte è anche la piú comune e condivisa. E se è vero che «ogni tanatofobo ha bisogno del conforto temporaneo di un caso piú grave del proprio», guardarsi intorno può aiutare. Julian comincia dal suo entourage piú immediato, la famiglia di sangue - suo padre, un professore «amabile e tollerante», sua madre, anche lei insegnante, ma «lucida, categorica, apertamente intollerante delle opinioni contrarie», e suo fratello maggiore Jonathan, filosofo aristotelico, ateo, asciuttamente pragmatico - trovandoli tutti piú bravi di lui in «questa cosa del morire». Allarga quindi lo sguardo ai compagni quotidiani della sua vita, la sua «vera famiglia»: artisti, filosofi, compositori e soprattutto scrittori, in primo luogo Jules Renard, di cui ripercorre la breve esistenza segnata da lutti prematuri, ma anche Émile Zola, Stendhal, Somerset Maugham, l'amato Flaubert. Le loro risposte all'ineluttabilità della fine si affiancano, in questo semi-dolente excursus, a riflessioni sull'estasi estetica e la religione dell'arte, le réveil mortel e l'inaffidabilità della memoria, Richard Dawkins e i geni egoisti, le ultime parole e i vari tipi di paura, la criopreservazione e la distruzione del pianeta. Ne nasce una sorta di vasta «tanatoenciclopedia» con cui il Julian Barnes scrittore, complice una buona dose di umorismo, dimostra di aver saputo trovare, dopotutto, nella penna la via per la propria sopravvivenza. Una paura atavica e insuperabile attanaglia da sempre Julian Barnes, quella della propria estinzione. Nessun conforto può venire dalla fede, all'agnostico scrittore, che fin dalla prima riga confessa: «Non credo in Dio, però mi manca». Non resta dunque che unirsi alla fitta schiera di illustri tanatofobici che l'hanno preceduto - da Montaigne a Renard, da Rachmaninov a Larkin - provando a convincersi che nel grande «buco nero dell'abisso» non c'è niente, ma proprio niente, di cui avere paura. «Geniale e divertente... concepito con grande abilità... proustiano nell'impianto». Frank Kermode, «The New York Review of Books» «Un libro tagliente, nel senso che oltre a essere arguto fa male». «New Statesman»
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Lingua:Italiano
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Fiorella Palomba 29 maggio 2022Autoreferenziale
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