Nella musica, le cose, pensano. Nella letteratura di Barilli, le cose pensano di essere musica. Le persone sono paesaggi, e dunque si esprimono nei “modi” maggiori e minori. Le vicende sono temi, e si sviluppano fino alla catastrofe primordiale della Ricapitolazione. Ogni figura viene dissezionata nelle sue componenti, secondo quel cimento analitico che fa della musica un’arte affine all’anatomopatologia. Si prenda Giuseppe Verdi. Secondo Barilli, Verdi è un sarcofago. Non è mai stato vivo, né mai morirà. La sua musica si trascina come i carri dei bovi nei maggesi parmensi, e scintilla di risa che preludono a duelli a coltello, lungo le osterie del Po. Fango e sangue, malaria e chinino, figli illegittimi e tiranni costretti alla violenza da madri cattive: il rintocco di percussioni segnate dal vaiolo e ottoni rochi per l’enfisema dell’alcool segnano il suo Verdi, che icona della dignità nazionale mai sarà. Il suo Verdi è triviale, ateo disilluso, nemico ad ogni re, scheggiato di terra e miseria. Non per niente, il suo Verdi ideale si annida nel Trovatore: l’unica Opera verdiana che può dirsi scritta di getto, con gli sbaffi di matita intorno al delirio di non saper controllare l’invenzione melodica, bellissima allegoria del destino.
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Anno edizione:2023
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