"Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni". L'incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica. Nulla più dell'idea del "restare" potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere etnografico. Restare sembra l'antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all'incontro.Ma davvero l'idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l'esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall'esperienza del restare, e davvero il restare va accostato all'immobilità, alla scelta di non incontrare l'alterità e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? L'avventura del restare - la fatica, l'asprezza, la bellezza, l'etica della "restanza" - non è meno decisiva e fondante dell'avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme.
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Anno edizione:2010
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