Leggendo le poesie di Brodskji dal suo esilio nel 1972, con 24 Dicembre 1971, fino alle Elegie romane, alle Strofe veneziane, passando per il baltico di Kellomäki si ha l’impressione di assistere ad un lavoro fenomenologico, in cui tramite l’Epochè si sospende la tesi sul mondo usuale, quel mondo che Brodskji fuggì per intenzionare quelle stesse cose di un nuovo thelos, un nuovo significato rendendorle vive e in simbiosi con il soggetto. Brodsji riesce in questo con un massicio uso della metafora che significa le cose, le persone, i luoghi incontrati di una verità nuova. In questo modo le cose sono esse stesse e qualcosa d’altro al tempo stesso, figure immaginarie, colori, suoni (Ashkenazy in Elegie romane IX.). Il russo di Brodskji, così intenzionato non rimanda più al contesto sovietico, ma si ricostrituisce riallaciandosi alla migliore poesia russa da Puškin in poi. Non si tratta di poesie da leggere, ma da rivivere nel proprio corpo vivente (Leib), immaginando orizzonti che si rivoltano come cappotti (Marea I.), o come lune che come globuli bianchi traspaiano nel sangue di cantori fantastici (Strofe veneziane (1), II.). Sempre e comunque si avverte un processo di progressiva Einfühlung con un linguaggio epochizzato, vivente in un mondo non mondano. Infine, poesie non come tanti busti in un museo ma come uno sforzo di intenzionalizzare in maniera propria le esperienze vissute in prima persona, con un invito a ripetere lo stesso processo.
Poesie (1972-1985)
Il giorno 4 di giugno del 1972 abbandonava la Russia, con una piccola edizione delle poesie di John Donne in tasca e quasi nient’altro, il poeta Iosif Brodskij. La prima persona che Brodskij cercò in Occidente fu W.H. Auden. Su un prato del villaggio austriaco di Kirchstetten, il delfino dell’Achmatova e l’anziano poeta inglese, troppo chiaro per essere capito dai suoi contemporanei, si intesero in una communicatio idiomatum che non si sarebbe più interrotta, come testimonia la mirabile orazione funebre pronunciata da Brodskij nel decennale della morte del poeta: scritta in inglese, «per compiacere un’ombra». Da quel giorno Iosif Brodskij è diventato anche Joseph Brodsky, residente a New York ma di ascendenza tutta pietroburghese, se non vi è luogo come Pietroburgo «dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà». Così, «è con l’emersione di San Pietroburgo che la letteratura russa è entrata nell’esistenza». Molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, «dove occhio e memoria operano con inusuale acuità», l’onnipresenza dell’acqua, questa «forma addensata del Tempo», il soffio di vento saturo di alghe. In questo microclima alessandrino, dove l’Europa venne a riflettersi in uno specchio gigantesco, si è compiuta una prodigiosa eruzione di letteratura moderna, da Puškin a Mandel’štam, nel segno di un classicismo allucinatorio. E oggi quel luogo, che è un linguaggio, continua a vivere proprio in Brodskij, nelle schegge delle sue immagini, nei suoi metri sapienti, magari celati da una temeraria sprezzatura. In questo volume sono state raccolte, in accordo con l’autore, poesie degli anni 1972-1985, anni di un esilio che preesisteva alla partenza e al tempo stesso non sarà mai, perché Brodskij ha la sua patria nella lingua russa. Così ci accorgiamo di leggere i suoi versi, dopo Mandel’štam, la Cvetaeva, l’Achmatova, come parte di un’unica storia.
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Edizione:5
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davidebond 01 luglio 2025Ricordando una lettura brodskjiana
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