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Non aspettarmi vivo. La banalità dell'orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti
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Non aspettarmi vivo. La banalità dell'orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti - Anna Migotto,Stefania Miretti - copertina
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Non aspettarmi vivo. La banalità dell'orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti

Descrizione


Dopo anni di lavoro sul campo, due giornaliste italiane restituiscono per la prima volta le voci di una generazione «pericolosamente in bilico tra Europa e Califfato».

Chi sono i ragazzi che si uniscono all'Isis e cosa li spinge a partire lasciandosi tutto alle spalle, anche l'amore delle madri, delle fidanzate, dei fratelli, per fare la guerra agli infedeli? Gli sms che i giovanissimi jihadisti scrivono alla mamma dalla Siria. Ciò che i loro padri sono disposti a fare per fermarli, o per riportarli indietro, anche a costo della vita. Lo smarrimento dei loro amici. Le promesse del radicalismo religioso, che con il linguaggio della modernità adesca sul web quelli che fino a un attimo prima erano studenti modello, musicisti trasgressivi, calciatori prodigio, ballerini di break dance, majorette vanitose, discotecari in fissa coi marchi alla moda, adolescenti affettuosi. Il contagio islamista sembra essersi diffuso come una malattia esantematica, finché il paradiso non è diventato la destinazione ambita da molti ventenni in cerca di un posto nel mondo. Migotto e Miretti scrivono un libro pieno di inedite testimonianze. Un viaggio crudo e scioccante nella quotidianità e nell'immaginario dei ragazzi sedotti da Da'ish, per scoprire che il paesaggio svelato è insieme esotico e ben più familiare del previsto.

«A gruppi di cinque, di sei, di tredici, in ciabatte o calzando un paio di sneakers tarocche, i ventenni sparivano così, alla buona, per rinascere cittadini virtuali d'un mondo nuovo; e da quell'altrove arcaico e però ben connesso si facevano vivi con la famiglia in ansia, via Facebook, Skype o WhatsApp, per far sapere di essere sulla strada verso il paradiso».
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Dettagli

2017
18 aprile 2017
260 p., Brossura
9788806232832
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Indice

Introduzione.

Era l'inverno del 2013 e l'estate del 2016 abbiamo attraversato più volte la Tunisia per raccogliere le storie dei suoi giovani Foreign Fighters, i più numerosi in assoluto tra i quanti, da tutto il mondo, hanno raggiunto l'autoproclamato Stato Islamico. Volevamo comprendere in cosa fossero diversi, al di là dell'incredibile esplosione numerica, dalle leve jihadiste del passato; quali nervi scoperti avesse saputo toccare il mostro che per convenzione continuiamo a chiamare Isis (e gli arabi Dã'ish, mentre per i suoi adepti è semplicemente al-Dawla, «lo Stato»); quale fosse la sua malia, il suo potere di seduzione sui ragazzi. E l'unico modo per provarci era addentrarsi dento l'incubo in cui i genitori dei giovani jihadisti, i fratelli e gli amici, intere comunità musulmane (molte le vittime),erano nel frattempo precipitati; familiarizzare col dolore di quegli estranei, e in definitiva coi molti fantasmi che popolano un mondo per noi europei abbastanza indistinto, che spesso pretendiamo di giudicare da lontano, incapaci di riconoscerne la tragedia. Fin dall'inizio ci era infatti parso, e sempre più lo pensiamo, che il forsennato entusiasmo con cui i ventenni tunisini raggiungevano i campi di battaglia siriani, le loro farneticazioni indentitariste, la crudeltà di cui davano prova, il proverbiale desiderio di morte, en on da ultimo il simbolico ma brutale parricidio in corso, fossero il sintomo più lampante di un male che andava lentamente spandendosi nelle nostre stesse periferie e un po' ovunque nel mondo.

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