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Sono cose da grandi

Descrizione


È possibile spiegare a un bambino l'esistenza del male? Con voce intensa, precisa, intima, una madre guarda dentro di sé per cercare una risposta.
«Questa lettera ha inizio nell'estate dei tuoi quattro anni. Quando le mie paure si sono schiuse davanti alle immagini di una strage. Poco dopo la Terra ha tremato. E anche io sono stata contagiata da quel tremore, perché l'ho avvertito in te.»

Un giorno, davanti alla televisione, per la prima volta Simona riconosce negli occhi del figlio la paura. E non è la paura catartica delle fiabe, è quella suscitata dalla violenza del mondo. La frase usata fino ad allora per proteggerlo «sono cose da grandi» non funziona piú. Cosí decide di rivolgersi a lui, con semplicità, per dirgli ciò che sulla paura ha imparato. Ma anche per raccontargli la dolcezza di una vita quotidiana a due, tra barattoli pieni di insetti e scatole magiche dove custodire i propri desideri. Scrivendogli scopre la propria fragilità, e in questa fragilità, paradossalmente, una forza. In questo tempo incerto e minaccioso, una madre prova a decifrare il mondo per suo figlio, reinventandolo attraverso i giochi e le storie che crea ogni giorno per lui.
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Dettagli

2017
24 gennaio 2017
98 p., Brossura
9788806233976
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Indice

Le prime righe del romanzo

Ricorderò sempre quel che è accaduto. Davanti a un televisore acceso. La paura che si insinua nei tuoi occhi. È stato un attimo, un battito d’ali, ho riconosciuto un tremore che prima non c’era.
Fino a quel momento avevo avuto la prontezza di cambiare canale ogni volta che la violenza di una scena irrompeva dallo schermo.
– Sono cose da grandi, – ti dicevo, quando tu, vispo e curioso, mi chiedevi di tornare indietro. Sembravi guidato da un istinto ingordo e avevi il distacco dello scienziato. Il mondo è per te un luogo da scoprire. Non provi ribrezzo quando prendi in mano uno scarafaggio e giochi con le sue zampette che si agitano nell’aria, non hai paura che ti punga o che possa nascondere un veleno letale.
Ma quel giorno l’insetto che avevamo davanti era l’immagine di un camion bianco che si getta sulla folla investendo adulti e bambini. Era la voce del giornalista che descriveva l’orrore di chi ha visto un padre o un figlio morire, su una strada, la Promenade des Anglais di Nizza, che fino a quel momento tu non avevi mai sentito nominare. Eppure era vicina. Tra le immagini del disastro c’era un passeggino identico al tuo. Una scarpa da ginnastica uguale a quella di tua cugina, ma insanguinata. Un peluche non tanto diverso da Bibi, l’orsetto che dorme con te da quando sei nato.
Ero troppo sconvolta per cambiare canale. Non mi sono neanche accorta che eri rimasto seduto lí accanto. La casa dei nonni è sempre un viavai disordinato, ti pensavo fuori, a giocare in giardino. Invece la tua voce acuta ha interrotto il brusio del telegiornale e ha aperto un varco nell’ipnosi collettiva.
Quella volta me lo hai detto tu: – È da grandi –. Avevi un tono supplichevole, lo sguardo liquido, pieno di sconcerto. Eri pallido, sembravi di pietra.
Ed eri tu, non io, a voler cambiare canale. La nonna ti ha preso in braccio. E, mentre ti portava via, i miei occhi continuavano a frugare dentro i tuoi, tentando di decifrare la paura che ti era scivolata dentro, viscida e quatta. Una paura che non avevo mai neppure intravisto sul tuo volto e che adesso invece, con le sue zampette sottili, in un lampo si era spinta fino in fondo. Tu nascondevi il viso nei capelli della nonna mentre la paura se ne stava già rintanata da qualche parte dentro di te, a deporre le sue temibili uova.
Sin da che ti portavo in grembo mi sono misurata con l’urgenza di proteggerti. E ancora oggi, con l’insensatezza dell’istinto materno, vorrei poter dire che non è successo nulla. Ma cosí non è. Ho visto il modo in cui, la sera, stringevi Bibi prima di addormentarti. Ho letto il riflesso della paura nell’incubo che ti ha svegliato la notte, e in tutte le volte che da allora mi hai chiesto: – Mamma, dove vai? – preoccupato che potessi scomparire da un momento all’altro.
Li sentivi chiacchierare, i bambini piú grandi. Appollaiati sopra i letti a castello di legno, in montagna, figli di amici che tiravano tardi la sera e davanti a te parlavano dell’Isis come di un’entità simile all’uomo nero, come se i suoi seguaci non fossero, in alcuni casi, anche loro ragazzi dalla faccia pulita e l’aria da studiosi insospettabili. Temevano che quest’uomo nero potesse arrivare in qualunque istante e in qualunque luogo. Eravamo tutti in guerra, dicevano, nessuno escluso. Uno di loro ha detto alla sua mamma: – Voglio imparare l’arabo. Cosí, se arrivano i cattivi dell’Isis, io faccio finta di essere musulmano.
Che cosa avrai capito tu di quella richiesta, del baratto di identità che sottintendeva? Hai solo quattro anni, non puoi capire.
Ecco il perché di queste parole, amore mio. Le sto scrivendo anche per raccontarti quello che so sulla paura. Nell’illusione di offrirti quasi un manuale di sopravvivenza.
Le affronto per la prima volta, le mie paure, e mi chiedo se non siano le stesse che albergano nei cuori delle altre madri. Penso a loro, e rivedo il viso della mia. Le sue mani strette sulla vestaglia rossa, mentre sbircia fuori dalla finestra e socchiude lo sguardo scrutando il cielo nelle notti piene di musica da ballare, quella musica che mi faceva perdere la cognizione del tempo. Ricorderò sempre quel che è accaduto. Davanti a un televisore acceso. La paura che si insinua nei tuoi occhi. È stato un attimo, un battito d’ali, ho riconosciuto un tremore che prima non c’era.
Fino a quel momento avevo avuto la prontezza di cambiare canale ogni volta che la violenza di una scena irrompeva dallo schermo.
– Sono cose da grandi, – ti dicevo, quando tu, vispo e curioso, mi chiedevi di tornare indietro. Sembravi guidato da un istinto ingordo e avevi il distacco dello scienziato. Il mondo è per te un luogo da scoprire. Non provi ribrezzo quando prendi in mano uno scarafaggio e giochi con le sue zampette che si agitano nell’aria, non hai paura che ti punga o che possa nascondere un veleno letale.
Ma quel giorno l’insetto che avevamo davanti era l’immagine di un camion bianco che si getta sulla folla investendo adulti e bambini. Era la voce del giornalista che descriveva l’orrore di chi ha visto un padre o un figlio morire, su una strada, la Promenade des Anglais di Nizza, che fino a quel momento tu non avevi mai sentito nominare. Eppure era vicina. Tra le immagini del disastro c’era un passeggino identico al tuo. Una scarpa da ginnastica uguale a quella di tua cugina, ma insanguinata. Un peluche non tanto diverso da Bibi, l’orsetto che dorme con te da quando sei nato.
Ero troppo sconvolta per cambiare canale. Non mi sono neanche accorta che eri rimasto seduto lí accanto. La casa dei nonni è sempre un viavai disordinato, ti pensavo fuori, a giocare in giardino. Invece la tua voce acuta ha interrotto il brusio del telegiornale e ha aperto un varco nell’ipnosi collettiva.
Quella volta me lo hai detto tu: – È da grandi –. Avevi un tono supplichevole, lo sguardo liquido, pieno di sconcerto. Eri pallido, sembravi di pietra.
Ed eri tu, non io, a voler cambiare canale.
La nonna ti ha preso in braccio. E, mentre ti portava via, i miei occhi continuavano a frugare dentro i tuoi, tentando di decifrare la paura che ti era scivolata dentro, viscida e quatta. Una paura che non avevo mai neppure intravisto sul tuo volto e che adesso invece, con le sue zampette sottili, in un lampo si era spinta fino in fondo. Tu nascondevi il viso nei capelli della nonna mentre la paura se ne stava già rintanata da qualche parte dentro di te, a deporre le sue temibili uova.
Sin da che ti portavo in grembo mi sono misurata con l’urgenza di proteggerti. E ancora oggi, con l’insensatezza dell’istinto materno, vorrei poter dire che non è successo nulla. Ma cosí non è. Ho visto il modo in cui, la sera, stringevi Bibi prima di addormentarti. Ho letto il riflesso della paura nell’incubo che ti ha svegliato la notte, e in tutte le volte che da allora mi hai chiesto: – Mamma, dove vai? – preoccupato che potessi scomparire da un momento all’altro.
Li sentivi chiacchierare, i bambini piú grandi. Appollaiati sopra i letti a castello di legno, in montagna, figli di amici che tiravano tardi la sera e davanti a te parlavano dell’Isis come di un’entità simile all’uomo nero, come se i suoi seguaci non fossero, in alcuni casi, anche loro ragazzi dalla faccia pulita e l’aria da studiosi insospettabili. Temevano che quest’uomo nero potesse arrivare in qualunque istante e in qualunque luogo. Eravamo tutti in guerra, dicevano, nessuno escluso. Uno di loro ha detto alla sua mamma: – Voglio imparare l’arabo. Cosí, se arrivano i cattivi dell’Isis, io faccio finta di essere musulmano.
Che cosa avrai capito tu di quella richiesta, del baratto di identità che sottintendeva? Hai solo quattro anni, non puoi capire.
Ecco il perché di queste parole, amore mio. Le sto scrivendo anche per raccontarti quello che so sulla paura. Nell’illusione di offrirti quasi un manuale di sopravvivenza.
Le affronto per la prima volta, le mie paure, e mi chiedo se non siano le stesse che albergano nei cuori delle altre madri. Penso a loro, e rivedo il viso della mia. Le sue mani strette sulla vestaglia rossa, mentre sbircia fuori dalla finestra e socchiude lo sguardo scrutando il cielo nelle notti piene di musica da ballare, quella musica che mi faceva perdere la cognizione del tempo.
La rivedo mentre mi aspetta sveglia, anche fino all’alba. E mi sembra di sentire mio padre che dal letto le dice: – Memi, dài, vieni a dormire.
Vado ancora piú indietro e penso alla tua bisnonna, Diego. Immagino le sue giornate in tempo di guerra. La sua faccia mesta quando divide il cibo per le figlie sul ripiano della credenza, allunga il latte con l’acqua, raccoglie le briciole di pane dal tavolo e se le infila in bocca, per mettere a tacere lo stomaco che brontola.
Penso ad altre madri come lei. Le vedo sobbalzare al suono delle sirene, scendere di corsa le scale dei rifugi antiaerei con i bambini in braccio. Mi sembra di sentire i boati delle bombe. È una paura che non conosco da vicino, ma presumo che quella paura svanisse quando le radio annunciavano la fine della guerra. Le nostre radio forse non lo faranno mai. Per questo abbiamo smesso di chiedercelo, se e quando tornerà davvero e per chiunque la pace.

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 4/5

Se provassimo a guardare il mondo con occhi di un bambino, credo che saremmo meno spaventati nell’affrontarlo ed il dolore potrebbe diventare più dolce. Sono i nostri figli, il nostro futuro, insomma la nostra immortalità, ed è solo grazie a loro che il dolore di questo mondo che sta cadendo, diventa più leggero e sopportabile. Brava Simona Sparaco! Libro consigliato “sono cose da grandi”, specie a chi è mamma che potrà apprezzarlo ancora di più

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Recensioni: 5/5

«Questa lettera ha inizio nell'estate dei tuoi quattro anni. Quando le mie paure si sono schiuse davanti alle immagini di una strage. Poco dopo la Terra ha tremato. E anche io sono stata contagiata da quel tremore, perché l'ho avvertito in te». Un giorno, davanti alla televisione, per la prima volta Simona riconosce negli occhi del figlio la paura. E non è la paura catartica delle fiabe, è quella suscitata dalla violenza del mondo. La frase usata fino ad allora per proteggerlo - «sono cose da grandi» - non funziona piú. Cosí decide di rivolgersi a lui, con semplicità, per dirgli ciò che sulla paura ha imparato. Ma anche per raccontargli la dolcezza di una vita quotidiana a due, tra barattoli pieni di insetti e scatole magiche dove custodire i propri desideri. Scrivendogli scopre la propria fragilità, e in questa fragilità, paradossalmente, una forza. In questo tempo incerto e minaccioso, una madre prova a decifrare il mondo per suo figlio, reinventandolo attraverso i giochi e le storie che crea ogni giorno per lui. Simona Sparaco mi ha commosso parlando con estrema semplicità e raffinatezza della sua vita da mamma alle prese con Diego , un ometto di quattro anni che comincia a interfacciarsi con un mondo che non è affatto adatto a un bambino ma che inevitabilmente lo vedrà crescere, sbagliare, vivere. Mi ha commosso sentire raccontare le paure, le necessità di un quotidiano che a volte si fa complicato, perché gestire da sola un bambino non è semplice, il desiderio di divorare con avidità ogni suo attimo per non perdersi nulla di lui e non rimpiangere per questo il passato. Ogni riga è un'occasione per riflettere e per immedesimarsi, per prendere coscienza sul mondo che ci circonda e per trarre spunto su possibili risposte a domande scomode che i bambini pongono trovandoci sempre impreparati.

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Recensioni: 5/5

Ho appena finito di leggere il suo ultimo romanzo e devo dire che mi è piaciuto molto. Io non sono mamma ma ho sentito tutta la sua fragilità trasformarsi in forza per far sì che questo piccolo uomo grazie ai suoi insegnamenti si trasformi in grande uomo. Sono d'accordo quando dice che il vostro rapporto influenzerà un giorno i rapporti che suo figlio avrà con le donne . La nostra società e' piena di uomini che non sono mai cresciuti per colpa di donne che non hanno mai voluto recidere il cordone ombelicale . L'ho vista ospite da Lilly Gruber: complimenti e' anche molto carina oltre che brava. Paola Paternesi amica di Silvio e Alberto di Cittadella di Montemonaco

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Simona Sparaco

1978, Roma

Scrittrice e sceneggiatrice. Dopo aver preso una laurea inglese in scienze della comunicazione e aver vissuto all'estero, spinta dalla passione per la letteratura è tornata in Italia e si è iscritta alla facoltà di lettere, indirizzo spettacolo. Ha poi frequentato diversi corsi di scrittura creativa, tra cui il master della scuola Holden di Torino. Ha pubblicato un suo racconto nella raccolta The sleepers. racconti tra sogno e veglia edito da Azimut nel 2008. Tra i suoi romanzi,Nessuno sa di noi (2013) è stato un istantaneo bestseller, vincitore del Premio Roma e finalista al Premio Strega, mentre Se chiudo gli occhi (2014) è stato vincitore del Premio Selezione Bancarella, del Premio Salerno Libro d’Europa e del Premio Tropea. Con DeA Planeta...

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