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Le prime pagine del libro
«Ladies and gentlemen, we are now about to land in Orlando, Florida.» La voce metallica mi risveglia dalla trance di dieci ore di volo. Fuori, dice il comandante, il cielo è terso con una temperatura di ventotto gradi: tempo splendido, cosa aspettarsi dal Sunshine State? Guardo l’orologio e penso che mancano venti minuti buoni per scendere; che faccio, do un’altra occhiata all’articolo sul virus Zika? In Florida ci sono tante zanzare, quasi come in Veneto. È un problema serio. Sarà una delle prime cose di cui dovrò occuparmi.
Zika è soltanto l’ultima delle virosi emergenti, si è manifestata da circa sei mesi in Brasile con un’impennata di casi di microcefalia nei neonati. Di questo virus si sa poco: che è trasmesso dalle zanzare, che nell’adulto provoca una forma febbrile passeggera e benigna, ma nella donna incinta può portare a danni irreversibili al nascituro. Come se in Brasile avessero bisogno anche di questa emergenza.
No, l’articolo può aspettare. Sono venticinque anni che giro per il mondo come una disperata, e sul treno o sull’aereo ormai sono abituata a fare di tutto. Non oggi: questo è un viaggio un po’ diverso; non sto andando a un convegno o a una conferenza: oggi, 16 giugno 2016, negli Usa 6/16/2016, inizio una nuova vita. E svolte come questa hanno bisogno di un po’ di spazio interiore e di silenzio per sedimentarsi.
Allora chiudo gli occhi e mi rilasso contro lo schienale. Niente da fare, la mente non sta ferma, non si libera. Mai dormito in viaggio, figurarsi oggi, e forse in vita mia avrò visto solo un film durante un volo. Di solito lavoro: siamo io e i paper, io e il computer, la carlinga che mi isola dalle nuvole e dalle distrazioni come una bolla di concentrazione. Perché il tempo è importante: è l’unica risorsa su cui abbiamo pieno potere, e non si deve buttare. Mai. Ah, ecco, la lista delle cose da fare: primo, telefonare a Rich sfruttando l’attesa dei bagagli.
Secondo: ritirare l’auto, quindi prendere la Florida’s Turnpike fino all’immissione nella Interstate Highway 75. Direzione Gainesville, la mia nuova città. Dopo Roma, Perugia, Teramo, Padova. E tutte le altre che sono state parte della mia vita: Londra, Edimburgo, Atlanta, Washington, Amsterdam, Parigi. Ma anche Istanbul, Tokyo, il Cairo.
Guardo il mio anello azzurro. Che bello, sembra fatto di acqua.
L’aereo atterra con un sobbalzo e una frenata brusca. Punto in avanti le gambe come al solito, mi fa sempre un po’ paura l’attimo in cui si tocca terra… Mi alzo, i piedi gonfi, mi gira leggermente la testa, tiro giù il trolley dalla cappelliera, e subito arriva fedele la fitta alla spalla. Ah, che male, è sempre una coltellata. «Cosa credi di fare?» mi domanda come una compagna antipatica e onnipresente. «Hai cinquant’anni!» Ha ragione, li ho compiuti meno di due mesi fa. Proprio una bella età per cambiare Paese, lingua, abitudini. Per lasciare gli amici, le persone e le cose che ami. Ma che devo fare? Crescere significa pure questo, mettersi in gioco, essere pronti ogni volta a iniziare da capo: lo ripetevo sempre ai miei collaboratori, no? Del resto, qual è l’alternativa: nascere, vivere e morire sempre nello stesso posto? Non ce la posso fare, ho bisogno di ossigeno.
Sono partita stamattina alle 10 da Venezia; mi ha accompagnato mamma, forte come sempre, non lascia trasparire la sua amarezza. Mamma è così, una roccia, quando ce n’è bisogno. Scalo a Francoforte e poi, mannaggia, l’aereo ha un’ora e più di ritardo, quindi alle 13,40 di nuovo a bordo.
Controllo l’orologio: qui in Florida sono le 18,40, ma in Italia è quasi l’una di notte. Quattordici ore di viaggio, di cui dieci di volo ininterrotto, sono faticose. Ma a pesare non sono gli anni, sono i chilometri, diceva il vecchio Indiana Jones. Guardo il trolley, l’altro fedele compagno di vita, il guscio che mi porto appresso. Dentro, i documenti, il lavoro, il portatile e la pashmina fucsia, regalo degli amici di Ancona per i miei cinquanta. L’aria condizionata in aereo è terribile ma io ormai conosco il nemico. Dentro il trolley nero ci sono anche i gioielli: la spilla di nonna Rosaria, il bracciale di nonna Anna. Le perle che mi ha regalato mamma.
L’anello di fidanzamento, l’anello azzurro invece ce l’ho al dito.
Mi alzo e mi metto in fila per scendere, saluto veloce hostess e steward; scendo e, con il mio passo deciso, mi incammino nel tunnel che porta direttamente al terminal. Quando entro in quel tubo di congiungimento fra cielo e terra, mi gira sempre la testa, sempre. A Venezia siamo arrivati in pullman sulla pista, qui c’è un’apoteosi di vetro e acciaio, tutto grida modernità, efficienza, soldi, denaro e potere. È l’America, bellezza, land of opportunity.