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In questo romanzo, pubblicato postumo ed incompleto (prima della deportazione, la scrittrice aveva terminato solo due delle cinque parti pensate nel progetto iniziale), l’autrice racconta l’esperienza dell’invasione tedesca della Francia vista dagli occhi di diversi personaggi, tutti ben caratterizzati: c’è l’artista a cui tutto è concesso e la coppia di impiegati bancari con la loro vita monotona, c’è la famiglia nobiliare dei dintorni di Parigi e la famiglia di campagna con i figli e il marito al fronte. Come in un film moderno, l’obiettivo si sposta tra i vari personaggi, dalla città alla campagna, senza soluzione di continuità, aggiungendo sempre maggior pathos man mano che l’invasione diventa la normalità. Il rapporto tra la popolazione e l’invasore nemico è molto ben raccontato e fa da sfondo alla parte più emozionante del libro, in cui le famiglie si allargano e gli invasori vengono man mano integrati nella vita della comunità. Quest’opera permette di analizzare e conoscere meglio gli anni più decisivi dell’Europa con gli occhi di chi l’ha vissuto in prima persona. Non più patti e battaglie ma la vita quotidiana che continuava malgrado tutto.
Un romanzo di cui tanto si è detto e scritto e per cui possono utilizzarsi solo due parole: un capolavoro!
Irene, un’autrice per la quale confermo il mio positivo giudizio già espresso a suo tempo per “I falò dell’autunno”. Un libro con testo scorrevole, sia nella prosa descrittiva che nelle parti di dialogo, ben comprensibile e senza eccessi o ricercatezze. Il tema è quello classico della Nèmirovsky: le vicissitudini di popoli e nazioni prima e durante il secondo conflitto mondiale e la tragedia della shoah. Affrontate non con lo sguardo del saggista o dello storico ma calate nella quotidianità di vita dei personaggi. Il libro conserva il fascino dell’Incompiuta. A prescindere dalle spiegazioni contenute nelle appendici al testo, è evidente che si tratta di opera postuma, il cui sviluppo è stato repentinamente interrotto dal destino avverso all’autrice. Come una poesia senza chiusa. Anche se di contenuti profondamente diversi e già più strutturato e completo (almeno nelle prime due parti) il romanzo mi ricorda “Il monte analogo” di René Daumal, breve traccia di un percorso d’avventure alpine e interiori troppo prematuramente interrotto dalla morte dello scrittore. La prima parte racconta l’esodo ed il successivo dietrofront di un popolo che nella euforia e illusorietà del periodo tra i due conflitti ha perso coscienza di sé, nonostante i segni premonitori. E che al di là di patriottismi e tardi eroismi crolla di peso a terra, ormai inerme e già arreso (come in genere tutta la Mitteleuropa) davanti all’avanzare dell’eresia nazista. Gente d’ogni donde e di ogni estrazione sociale vaga senza meta fuggendo dal nemico. Smarrita, senza lumi. Più che di un rifugio avrebbe bisogno di una presa di coscienza di sé. Poveri, borghesi, ricchi, tutti accomunati da quel sentirsi in balìa dell’incerto, mentre i fragili piedistalli si frantumano all’improvviso. Improprio il termine esodo poiché qui non si vede un progetto, un cammino. Non si va verso una meta, si sfugge da qualcosa. Forse più corretto il termine Babele, di popolo e coscienze. Dalla quale si salvano i personaggi più “semplici e corretti”, i Micaud ovvero la normalità e l’umanità, il bene. Un poco come Therese ne “I falò dell’autunno” con la sua sfiorita bellezza e gioventù, con le cicatrici della vita, ma comunque vincitrice. La seconda parte, “Dolce”, è un poco come la quiete dopo la tempesta… e prima dell’apocalisse. Una specie di occhio del ciclone dove tutto sembra per un attimo immobile, quieto. Si ritorna alla quotidianità, magari alterata dalla presenza di un nemico che però, a bocce ferme, non pare affatto la peggiore delle condanne. Si fanno affari e si intessono relazioni, si amoreggia, con la speranza che tutto torni come prima, con l’illusione che la parvenza di normalità sia già una tappa di questo ritorno di tempi sereni. Personalmente ho molto apprezzato al capitolo 9 di “Dolce” il divenire nei fiori sugli alberi del giardino della primavera descritto, come quasi come il tratto di un pennello che stende i colori sulla tela. “Suite francese”, opera postuma, scritti raccolti dalle figlie e pubblicati dopo moltissimo tempo. Mancano rispetto alle intenzioni della Nèmirovsky gli altri tre capitoli. In compenso ci sono una buona biografia dell’autrice e corrispondenza epistolare dal 1941 alla fine della guerra. Da questa emerge una biografia profondamente toccante perché il corso anagrafico e gli eventi diventano vita vissuta. Non nozione, ma emozioni, paure, attese, disperazione. Tappe di una storia umana che sono raccontate come vibrazioni dell’animo. Per chi poi si diletta nella scrittura è davvero piacevole scorrere le pagine del diario personale artistico nelle cui righe l’autrice, giorno dopo giorno, immagina e costruisce il suo romanzo. Plasma come argilla le parole e le idee sviluppando i potenziali contenuti del racconto, i personaggi e relative caratterizzazioni, il fluire degli eventi. Autrice su cui tornare, magari con la lettura del romanzo d’esordio, il “David Goller”
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