Indice
Le prime pagine del romanzo
È vero, siamo spariti dalle mappe. Mi chiedo però se a essere sparita non sia invece la terraferma, come se al mondo non fossimo rimasti che noi su questa nave. Di giorno il sole non c'è, e mai che di notte si accenda una stella, io perlomeno non ne ho ancora viste, né stelle né luna, durante la breve passeggiata sul ponte numero 12 prima di rincasare. Calpestare il ponte numero 12 mi mette sete. È fatto di un legno color miele che non scricchiola, e questi due passi dal ristorante alla mia stanza, respirando la brezza che anche nelle ore notturne resta tiepida, sono l'unico momento della giornata in cui mi capiti di alzare il naso al cielo. Per il resto il cielo lo guardo anche meno di quanto sarebbe normale, considerate le circostanze. C'è solo questa passeggiata serale, al termine della quale entro nell'ascensore, saluto l'ottuso ma fido Miguel, vedo le porte chiudersi e riaprirsi sei secondi dopo su un corridoio viola pallido in cui, poco oltre la T118, si trova la mia stanza, la T119. Ho perso il conto delle notti e non so più da quanto mi sia messo a bere sul serio, benché beva la sera solamente e più che altro da solo, non per bisboccia ma per riguardare la mia fotografia, scrivere il diario, prendere sonno in qualche modo. Impossibile lamentarsi, niente è scomodo. Il materasso è come mi piace, non troppo morbido, e nel chiuso della stanza il silenzio è poco meno che assoluto. Anche il costante rollio in teoria è gradevole, sempre uguale, si percepisce appena. Eppure per dormire io devo svenire, perché un silenzio assoluto è uguale al ronzio di un frigo, e per svenire mi ci vuole un goccio, o molto più spesso una bottiglia intera. Roba piuttosto forte, prima di qualunque etichetta, un liquido viscoso che il personale di bordo chiama scotch, bourbon o addirittura rum, a seconda di chi lo chiama. Anche se non ha niente a che vedere con nessuno dei tre, ci ho messo poco ad andarne matto. Credo che a rifornirmene sia la stessa gente che la mattina, mentre non ci sono, cambia gli asciugamani e rifà il letto. Se ne occupano quando sono assente, è sempre andata così, ma la scorsa settimana i postumi erano tali da dispensarmi dall'imperdibile colazione a buffet, imbandita com'è ovvio sul ponte numero 8 dalle sette alle dieci e trenta. Così sono rimasto a letto un paio d'ore in più e le ho incrociate. La bottiglia che sto vuotando ora verrà sostituita domani stesso, prontamente, e sarà così giorno dopo giorno. Sono tre donnine robuste, pelle arancione e occhi a mandorla. Sta a loro evitare che il mio alloggio asettico, con i suoi cassetti chiusi e l'aria aromatizzata al frangipane, si tramuti in un camposanto di bottiglie, si metta a puzzare di chiuso o ancora peggio di me (non sia mai che questa stanza acquisisca un po' di carattere). Sono le tre donnine a salvare le apparenze, mentre me ne vado inesorabilmente alla deriva. Ho cercato quindi di ringraziarle come si deve, e non so per quale motivo devo essere apparso un po' strambo. Non potevo dar loro una mancia: a quanto pare qui a bordo usufruisco della formula tutto compreso, e come chiunque non ho in tasca un centesimo. Ho cercato di ringraziarle per ciò che stanno facendo, impeccabilmente, giorno dopo giorno, da lunghi giorni. L'ho fatto esprimendomi a parole, in inglese, lingua che padroneggio magnificamente e con perfetto accento, a differenza di molti miei connazionali. Ma a questo punto le tre donnine, di cui tuttora ignoro i nomi, mi hanno riso in faccia all'unisono. Con un certo garbo, però, come se fossi un lattante ignaro o una buffa bestiola e non fosse giusto infierire. Poi si sono scambiate un'occhiata e due rapide battute a mezza voce, in una lingua sospesa fra il cigolio di una porta e il miagolio di un gatto. Pensare che non sono mai stato il tipo dell'ubriacone.