Quando fare è credere. I riti sacrificali dei romani
La religione romana ha una cattiva reputazione. Paragonata alle religioni universali chiamate 'religioni del Libro', sembra non suscitare alcun interesse. Priva dell'idea di rivelazione, di credenze e di dogmi, essa è fatta unicamente di riti e di obblighi rituali. Questo ritualismo spesso prosaico è stato a lungo inteso in modo sbagliato, quando non addirittura disprezzato. E invece riti e sacrifici possono contenere un pensiero teologico o filosofico implicito: essi mettono in scena le gerarchie che esistono nel mondo terreno e nell'aldilà tra gli uomini e gli dèi, tra gli dèi stessi, tra i loro partners umani. Così, l'immolazione di un bue, l'ordine di distribuzione delle porzioni di carne, lo stesso modo di consumarle, dicono molto sui rapporti tra gli dèi e gli umani. Tutto questo viene dimostrato da John Scheid attraverso l'analisi di alcuni sacrifici praticati a Roma tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C: quelli compiuti dalla confraternita religiosa dei fratelli arvali, quelli che si svolgevano durante i Giochi secolari, le prescrizioni sacrificali di Catone il Censore e, infine, i sacrifici funerari. Questi atti sacrificali, la cui esecuzione lascia il campo libero a tutta una serie di interpretazioni e di credenze, pongono un problema fondamentale: quale significato può avere una religione priva di fede?
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Anno edizione:2011
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