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Come è noto (o come dovrebbe esserlo, vista la crescente disaffezione per la storia) la battaglia di Vittorio Veneto, iniziata il 24 ottobre 1918 e terminata con l’armistizio firmato a Villa Giusti il 3 novembre dello stesso anno, segnò per noi italiani la fine della Grande Guerra, dopo più di tre anni di sanguinosi combattimenti. E’ indubbia la gioia che dovettero provare i nostri soldati, anche per la cessazione del sempre incombente pericolo di restare uccisi, ma quale fu il comportamento dei vinti, dei soldati di quel cosmopolita esercito imperial asburgico? E’ questa la domanda da cui è nato questo saggio scritto a quattro mani da Mario Isnenghi e Paolo Pozzato. Il quesito è più che mai necessario perché posto che gli sconfitti abbiano tirato un sospiro di sollievo per aver allontanato così l’incombente pericolo della morte, è altrettanto vero che quei militi battuti, laceri, affamati, si trovarono frastornati per la perdita di quello che era sempre stato, da secoli, il faro della loro esistenza, quell’impero dissoltosi e smembrato ben presto in tanti stati non sempre legati da rapporti amichevoli. Questa impensabile sconfitta si tradusse in una generale sfiducia, tanto più marcata quanto più forte, ed errata, era stata la convinzione di una supposta inferiorità del soldato italiano, quel soldato che, quasi travolto con la dodicesima battaglia dell’Isonzo e con la disfatta di Caporetto, era quasi miracolosamente risorto già nel novembre 1917, per cambiare completamente, in modo positivo, a partire dal mese successivo, tenacemente attaccato alla linea del Piave, capace di respingere il nemico incalzante, per poi vanificare l’attacco austriaco nella battaglia del solstizio, arrivando a contrattaccare e ora addirittura travolgente nell’ultima e definitiva battaglia. Onestà vuole che si riferisca che dopo il cruento scontro del giugno 1918 le cose erano molto cambiate in campo nemico, era subentrata una rassegnazione che in non pochi casi si era sviluppata in una crescente tensione che aveva portato diversi reparti, all’inizio soprattutto ungheresi, a disertare in massa, a lasciare il campo per tornare nei luoghi d’origine. Quell’impero, che dal di fuori pareva monolitico, si frantumò come se fosse d’argilla e le tante nazionalità che lo componevano e che da anni reclamavano un’autonomia sempre negata, ora rialzavano la testa e cercavano di ottenere non diplomaticamente o politicamente, ma con l’azione quello che era da troppo nelle loro mire. I vinti di Vittorio Veneto è un libro che è fatto di testimonianze, secondo un preciso criterio cronologico nell’ordine dell’evolversi degli eventi; abbiamo così degli scritti di parte avversa che ben riescono a spiegare cosa accadde veramente e anche il perché; sono affrontati quattro periodi temporali in cui è diviso anche il volume: dall’illusione di vincere alla fine, la battaglia di Vittorio Veneto, il crollo, cattura e prigionia. Emergono così dei temi meritevoli di ulteriori approfondimenti: l’incapacità di accettare come evento certo la sconfitta, i dissapori, per non definirli vere e proprie esacerbazioni nei confronti degli ungheresi e degli sloveni, l’illogica convinzione dell’inferiorità del soldato italiano, la fine di un mondo sempre mitizzato , di quell’epoca d’oro dei romantici balli di corte al ritmo dei valzer degli Strauss. In questo senso il libro di Isnenghi e Pozzato assume un’importanza basilare non solo per comprendere i motivi del dissolvimento di un impero millenario, ma anche per rendersi conto che la Grande Guerra fu l’occasione per legare quegli italiani che nell’unità d’Italia vedevano solo un’entità astratta, e non il sogno realizzato di un intero popolo. Da leggere, quindi.
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