Virilità. Il ritorno di una virtù perduta
Che cos'hanno in comune Tarzan e Platone, Hemingway e Margaret Thatcher? La virilità. Se questa parola può suonare fuori luogo alle orecchie di chi si prodiga per una società meno sessista, in cui le differenze tra uomini e donne si annacquano in una perfetta identità di genere, forse è soltanto perché non ne conosce a fondo il significato. Dalla filosofia greca all'attualità politica, passando per Stevenson e Machiavelli, Harvey Mansfield traccia un'analisi di questa virtù bistrattata. La psicologia sociale e la biologia evoluzionistica, grigie esponenti di una scienza troppo accademica e poco vitale, non hanno fatto che confermare gli stereotipi del senso comune, scambiando per aggressività il coraggio e per spacconeria un nobile desiderio d'affermazione. Perduto in questa società senza più ruoli, braccato da femministe e donne in carriera, il maschio rischia di passare la mano. La sua salvezza dipende esclusivamente da una presa di coscienza: dietro un'apparenza ingombrante e sfacciata, fatta di muscoli e scazzottate, l'uomo virile cela un cuore nobile e leale, gonfio di qualità positive e spirito di sacrificio.
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