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Anno edizione: 2023
Anno edizione: 2015
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«Di questa epopea Lupo, con L'albero di stanze, si conferma appassionato e sincero testimone, autentico e luminoso cantore, in un romanzo che segna con dolente e sofferta coscienza la conquista di una vita nuova». - Cesare De Michelis
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Allegorico, visionario, in una parola sorprendente, il romanzo di Giuseppe Lupo è un degno discendente di "Cent'anni di solitudine". I componenti della famiglia Bensalem, dal capostipite Redentore, alla voce narrante del pronipote Babele hanno dato vita ai muri della casa/albero fino all'ultimo giorno del millennio, che rappresenta l'epilogo della antica dinastia e l'inizio di una nuova. Il romanzo è così attraente nella sua lucida follia, nella descrizione dei suoi strampalati personaggi, ognuno dei quali trova comunque una strada da percorrere che, come spesso accade, il finale scelto dall'autore è inferiore alle aspettative. Decisamente criptico lascia, è vero, ampio spazio all'interpretazione del lettore, ma anche una leggera delusione ed una sensazione di incompiutezza. Un romanzo comunque che si presta ad una rilettura per meglio apprezzare il ricco linguaggio e le efficaci metafore che nobilitano la narrazione.
Chi ha letto qualcosa di Giuseppe Lupo ha già avuto modo di sperimentare sia la sua familiarità con i voli alti della fantasia che l’estrema dimestichezza con funamboliche astrazioni di racconti sospesi tra sogno e realtà. Racconti che inequivocabilmente nascono da ricordi mitizzati che si confondono con il mito vero e proprio, vissuto e assorbito con occhi, orecchi e perfino con il respiro. E con L’albero di stanze viene fuori tutto questo, prepotentemente. Credo di aver colto fino in fondo lo spirito che anima per intero questo romanzo essendomi calato nei panni di un bambino particolarmente sensibile, curioso e fantasioso, cresciuto in una famiglia patriarcale e molto numerosa, radicata in un piccolo paese dove le relazioni familiari ed extrafamiliari assumono valenze sconosciute in una grande città. Non è di quel bambino, però, che ‘ufficialmente’ si racconta in questo romanzo, bensì di un medico, sordo, candidato a un importante premio scientifico. Un medico che vive a Parigi, con moglie e due figlie e torna al suo paese di origine per vendere la casa di famiglia, la casa dove ha vissuto quel bambino sensibile, curioso e fantasioso di cui dicevo prima. Un paese imprecisato, immaginario. Perché la fedeltà narrativa, l’aderenza al reale mal si accompagna all’impalpabile atmosfera di sogno nella quale si svolge l’intero racconto. Questo mi è sembrato l’ordito sul quale Giuseppe Lupo ha mirabilmente intrecciato la trama di un viaggio nella memoria più profonda del protagonista, riuscendo così a dar corpo e contorni precisi alle storie (vere o inventate) che certamente quel bambino aveva ascoltato. Credo di aver individuato, leggendo L’albero di stanze, un gran gioco di rimbalzi tra una scrittura sospesa fra l’ingenuità della favola e la radicalità di un’antropologia arcaica, a metà strada tra religione e superstizione, caratterizzata da un linguaggio popolare e aulico nello stesso tempo, messo in bocca a personaggi così poco acculturati che temono persino che in famiglia possano verificarsi pericolosi smottamenti verso il mondo degli inchiostri. Personaggi di grande intelligenza, che però non sempre sembrano in grado di padroneggiare questo linguaggio, del quale fanno ugualmente uso, avendolo per lo più orecchiato e ripetetuto senza convinzione, per abitudine: “conosce la lingua delle montagne”, “colpescuro”, “quando capì che lo sconosciuto non dava parvenza”, “spalancava finestre aperte alle promesse del vento”. Ma anche un linguaggio che sembra mutuato da formule magiche: “scale che si maritavano ad altre scale”, “vola con l’angelo che gli dice di non svelare confidenze” (c’entra mica Chagall con questa immagine? A me pare proprio di sì). Se ho pensato ai quadri di Chagall vuol forse dire che siamo davvero in un mondo immaginario, nell’ovatta dell’astrazione pura: anche l’arrivo del terzo millennio, vissuto in diretta, ci rimanda a miti elaborati sull’onda di tante storie raccontate più volte. E intanto riemergono evidenti altre emozioni, quelle certificate dai frequenti rinvii alla Bibbia, e non solo per il ricorso a certi nomi, ma anche per gli intercalari di formule, brandelli di proverbi, preghiere e distorte citazioni latine, litanie... Pura astrazione, insomma: la sublimazione di mille e mille letture e dei ricordi delle storie di famiglia mescolate fra loro come l’impasto di calce e farina usato dal capostipite per innalzare ‘l’albero di stanze’, con la deliberata consapevolezza di ignorare le più elementari leggi della statica e con buona pace pure di ogni compatibilità con le regole dell’edilizia. E come in ogni racconto che ha a che fare con le favole, non poteva mancare la magia che si fa spazio, per esempio, con la prodigiosa guarigione di una bambina grazie alla semplice imposizione di una pietra nera. All’astrazione ben si accompagnano certe rappresentazioni visionarie, direi felliniane, come nel caso dell’uomo Pelikan che ho quasi visto spiccare il volo, staccandosi dal cappuccio di una vecchia stilografica. Ho creduto, però, di trovare la radice vera del romanzo nel profondo senso della famiglia: è il timore della sua dissoluzione o della sua possibile assenza la vera protagonista di tutta la storia. Un’assenza che si manifesta con diversi toni, a diverse profondità, in diversi ambiti. Me lo fanno credere le frequenti pause narrative dedicate a moglie e figlie del protagonista, la famiglia attuale (rimasta a Parigi in attesa del nuovo millennio e del rientro di Pépé Babèl ). Pause che si intrecciano con la famiglia passata, antica: una saga familiare che si dipana attraverso un secolo intero, punteggiata da partenze e scomparse che non consentiranno mai di vedere occupata per intero la grande casa di un’intera famiglia: “i nostri figli se ne andranno... ... abbiamo messo al mondo un albero malato” Per concludere, c’è un passaggio che, secondo me, svela l’idea che ha spinto Giuseppe Lupo a scrivere L’albero di stanze: “... non aveva un passato da dimenticare, solo un avvenire da attendere con la freschezza della sua gioventù” una magnifica e sintetica rappresentazione dell’entusiasmo che accompagna chi, forte della propria identità (mai rinnegata) è partito non soltanto per necessità, ma per una consapevole scelta indipendente: “per seguir virtute e canoscenza” Romolo Chiancone - Padova, 12 ottobre 2015
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