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Quando Quentin Tarantino sentenziò che la sua sceneggiatura era stata troppo ritoccata per poter essere giudicata di sua creatura, Oliver Stone non fece una piega e mandò comunque in scena la coppia di pazzoidi più avant-pop del secolo scorso; l’uno con il viso spiritato di Woody Harrelson, l’altra con il corpo flessuoso di Juliette Lewis. Il risultato una pellicola che sulla metà dei ‘90 creò non pochi problemi in termini di censura, che ne creò altrettanti in termini di emulazione da parte di persone che replicarono le stragi perpetrate da questi Bonnie e Clyde dei giorni nostri. Un film che esalta, come era comunque nel desiderio di Tarantino, l’aspetto distorcente della realtà. Ogni ripresa, ogni efferatezza viene vissuta e vista come un episodio di un serial con risate fuori campo, come un fumetto manga mal disegnato, esaltata da una musica a volte sincopata, a volte melliflua, a volte rockeggiante, grande il merito di Coehn e di Reznor nella scelta delle canzoni della soundtrack. Lo scopo di Stone quello invece di parodiare più volte le gesta di altri serial killer, come il Charles Manson messo sull’altare dell’emulazione da parte di Woody Harrelson; oltre al desiderio di dimostrare come già 20 anni or sono i media potessero trasformare in una coppia di rockstar un duo di killer senza alcuna pietà e ragione, se non fosse per le violenze subite da entrambi in giovane e età, e ovviamente vendicate a suon di stragi impunite. Harrelson, la Lewis, ancora prima dei Licks, Downey Junior e il cast tutto si accomodano piacevolmente al servizio di una pellicola che ancora oggi fa riflettere sull’uso e l’esaltazione di come la notizia, le opinioni dei singoli e soprattutto i fatti possano venire facilmente manipolate da un uso scorretto dei media. Da non perdere ma solo per palati decisamente forti e abituati a film con chiavi di lettura non semplici, a spargimenti di sangue apparentemente gratuiti, a trame schizoidi e non lineari, con continui rimandi spazio tempo non sequenziali.
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