Nel corso di un'unica lunga notte, un ex agente della polizia segreta zarista racconta ad un pubblico di avventori di un locale parigino la storia della sua vita. Tema principale del romanzo è il dualismo fra il bene e il male, il quale trova la sua incarnazione nell’affabile e seducente personaggio di Lakatos che, con i suoi modi leziosi e cortesi, spiana la via verso la degradazione morale del protagonista, accecato dal rancore per uno status familiare mai riconosciuto e dal desiderio di rivalsa sociale. Per quanto il racconto che viene fatto dell' irresistibilità del male che sempre tenta la natura degli uomini non sia particolarmente originale, lo stile mi ha incuriosita abbastanza da portarmi a leggere altro dell’autore.
Confessione di un assassino raccontata in una notte
Questo libro è il «romanzo russo» di Joseph Roth. Vegliati da un orologio di latta, le cui lancette sono ferme o segnano l’ora sbagliata, in un locale di Parigi che è un porto di naufraghi della prima emigrazione russa, alcuni avventori ascoltano una confessione, durante una notte interminabile. E subito siamo irretiti nell’intreccio di un esasperato feuilleton, che è una favola sul Male, sul suo potere ipnotico di spingere le proprie vittime in storie circolari e ossessive, che si stringono lentamente come un cappio. Questo Male metafisico, irriducibile, assume qui una forma peculiarmente russa: come oscura connivenza fra la delazione, il rancore, l’abiezione erotica e l’ansia di espiare, punirsi, confessare. Forse nessun libro ha saputo dare voce, al pari di questo, a un fantasma subdolo e imperioso: quello dell’«erotismo poliziesco». E, con la sua infallibile percezione dei «segni dei tempi», Roth ci ha offerto in queste pagine una delle più convincenti figure del Diavolo moderno: un essere mellifluo e imbrillantinato, che fa l’agente della polizia segreta zarista per passare poi, senza mutare in nulla le sue maniere, a quella di Lenin; un «sussurratore» che guida con dolcezza i suoi eletti in un «inferno profumato». È un inferno dove il protagonista entra di slancio, senza accorgersene, perché la sua soglia è segnata da un nobile sentimento: l’esigenza di una «giustizia assoluta». Ma, in un mondo dove ciascuno non è ciò che è supposto essere, dove «una falsa esistenza, costruita su un nome preso in prestito e rubato» riesce a «distruggere l’esistenza vera, quella reale», dove tutti i pesi sono falsi, dove i documenti falsi garantiscono l’immunità e i documenti veri celano in sé una condanna a morte, dove il legittimo è spurio e l’illegittimo si sente vittima di un complotto e perciò congiura contro i suoi presunti persecutori, in un mondo che sembra essere già di per sé una immane provocazione organizzata da una accorta polizia, la «giustizia assoluta» diventa facilmente la legge dell’inferno. Ma l’inferno non è, come vorrebbero i bigotti, solo un luogo di punizioni: piuttosto è un luogo di voluttà torturanti e di torture voluttuose, che svela con lentezza, con agio, la propria ultima atrocità. Grazie al genio romanzesco di Roth, noi traversiamo in queste pagine quell’inferno come fosse una serie di stanze in un appartamento, sentiamo il suo odore dolciastro, ci soffermiamo sulla carta da parati, avvertiamo l’attrazione del luogo come «qualcosa di caldo, di confuso, di assurdo», che però si offre con piena naturalezza, come se l’impulso più spontaneo fosse quello di abbracciare l’atroce. La "Confessione di un assassino" è il terzo romanzo scritto da Roth in esilio e fu pubblicato per la prima volta nel 1936.
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
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Cathcer in the rye 10 marzo 2024
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Stefano T 28 novembre 2017
Purtroppo J. Roth mi ha deluso con questo romanzo asciutto, vacuo e a tratti molto tedioso nello sviluppo della trama. Ammetto di esser stato erroneamente influenzato verso tale lettura in quanto romanzo ribattezzato da molti come “russo”, ma esso, a parte i personaggi e l'ambientazione, personalmente è risultato come un tentativo forzato, mal riuscito di imitazione, ovvero una stereotipizzazione del romanzo russo ottocentesco.
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Antonio Tricarico 23 novembre 2016
La scrittura di Joseph Roth è nitida e lucida, mai pesante, riluce di intelligenza e di spirito, lascia chi legge in ammirazione per l’eleganza del fraseggio e per la profondità che raggiunge in modo lieve. Questo romanzo può dirsi “russo”, sia per l’ambientazione, in un ristorante russo a Parigi frequentato da emigrati ed esuli; sia per l’origine del protagonista, che racconta in prima persona agli avventori quanto gli accadde tra la Russia e Parigi; sia per alcuni tipici temi presenti nei romanzi russi come la forza della burocrazia, il potere della nobiltà zarista, lo spionaggio; sia, da ultimo ma in realtà la prima cosa che colpisce, per l’ispirazione dostoevskijana che guidò lo scrittore. Come il grande maestro russo, Roth costruisce un affresco a tutto tondo dell’umanità, rivoltata da una parte all’altra come un guanto per non perderne nemmeno un aspetto, e con toni grotteschi ed irreali, che sottendono significati simbolici evidenti attinenti ad elementi anche autobiografici, rappresenta l’intera gamma delle espressioni del Male che Dostoevskij impersonò in Stavrogin, e che qui viene personificata nel protagonista Golubcik, un agente di spionaggio sovietico il quale attraversa il “suo” inferno dal momento in cui incontra sulla propria strada un individuo singolare, Lakatos, un elegante damerino imbellettato che emana un profumo dolciastro e stordente, dalla voce melliflua e suadente: da quel momento il Demone e l’Uomo si accompagnano a braccetto, la verità e la menzogna, l’amore e l’odio, l’eros e la passione, il desiderio di giustizia e la sete di vendetta si intrecciano in un abbraccio che trabocca di umanità: “siamo uomini, uomini! Cattivi e buoni! Buoni e cattivi! Nient’altro che uomini.”
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