Amo Susan Sontag e con questo libro non si sbilancia. Non si parla mai abbastanza di questo tema.
Davanti al dolore degli altri
"Semplice, elegante, ferocemente persuasivo" Metro Le sofferenze della guerra e l'orrore della morte si stampano nella mente attraverso immagini che lasciano un'impronta ostinata: dai cadaveri dei soldati della Guerra Civile Americana fotografati da Alexander Gardner alla celeberrima Morte di un miliziano repubblicano di Robert Capa, dalla bandiera usa a Iwo Jima ai bambini vietnamiti bruciati dal napalm, dalle foto dei lager nazisti nel gennaio del '45 a quelle del campo di Omarska in Bosnia, per arrivare fino alle rovine di Ground Zero. Susan Sontag parla, a questo proposito, dello "shock" della rappresentazione fotografica, che ci mette in modo autoritario e immediato davanti al dolore degli altri. Esaminando la cavalcata di questo shock nel corso del tempo, l'autrice arriva a un nodo cruciale della nostra contemporaneità: malgrado la complessità e l'instabilità dei concetti di realtà/riproduzione, memoria/oblio pubblico, visibilità/invisibilità, il "valore etico" delle immagini di sofferenza che ci investono – a volte fino all'ipersaturazione – rimane intatto.E rimangono le domande che percorrono stringenti le pagine di questo libro: cosa succede davanti alla rappresentazione del dolore degli altri? È possibile una "riproduzione" del dolore? Come si può fotografarlo o filmarlo senza sottrargli verità o produrre effetti di voyeurismo? E, piú alla radice, chi è l'altro, quell'emblema perturbante che ci interpella dalla sua riproduzione? Ecco perché questo libro, pubblicato nel 2003, è ancora ricco di spinta e incisività, oltre a restare un irriducibile atto d'accusa contro la violenza: "nessuno può pensare e al tempo stesso colpire un altro essere vivente".
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
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Susanna 27 aprile 2025
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Leonard_woolf 13 luglio 2022Testo un po' datato ma comunque in ottima forma
Come reagiamo al sangue in prima pagina e in prima visione? Come ci sentiamo quando accendendo la televisione, entrando sui social, sfogliando il quotidiano ci imbattiamo in corpi umani rovinati dalla violenza e dalla guerra? Per rispondere a questa domanda si fa molta fatica a ignorare la consapevolezza che dovremmo sentirci contrariati, inorriditi e rattrappiti nel nostro J'accuse contro la guerra e la violenza. Il punto però è che non ci sentiamo così: siamo assuefatti da fotografie e video che mostrano abitazioni bombardate, bambini morti per strada, piroscafi silurati, uomini e donne maltrattati e uccisi a causa di incongruenze ideologiche. Grazie ai telegiornali, ma ancor prima e soprattutto alla fotografia, realtà, immagine e dolore si combinano tra loro in un composto di atrocità che lungo andare si rattrappisce davanti ai nostri occhi, e diventando notizia tra le notizie assume lo spessore di un pettegolezzo. Perché pur mantenendo la loro immediatezza le immagini di guerra e di sofferenza non hanno più presa su di noi? Perché non ci ammoniscono più? Servono a qualcosa? E se sì, a cosa? Percorrere con lo sguardo il fiume di dolore che scorre negli occhi di un uomo fotografato nel momento esatto in cui un proiettile lo colpisce ci può aiutare a comprendere che il male fa male? Possono, insomma, delle immagini di guerra sembrare così familiari da allontanarci dalla loro atrocità? Riusciamo ancora a sostare davanti al dolore degli altri? In "Davanti al dolore degli altri" Susan Sontag si interroga sull'influenza delle immagini pittoriche prima e fotografiche poi sulla nostra percezione della realtà: se dipingere e fotografare una scena di guerra o una strada piena di cadaveri significa isolare un evento e quindi escludere ciò che gli sta attorno - e quindi fuori dalla cornice - perché allora non riusciamo a sentire con il cuore e con la mente quello che l'immagine vuole comunicare? È sempre stato così?
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