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Anno edizione: 2015
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Scappavano, fuggivano di fronte agli alleati portandosi dietro parte del tesoro nazionale, oltre a ricchezze personali, più o meno lecitamente accumulate; la colonna di auto al seguito di Mussolini fermata a Dongo era quella dei gerarchi e compromessi con il regime in marcia verso un’improbabile salvezza. La storia poi ci racconta dell’esecuzione di cui furono vittime il Duce e la sua amante e separatamente ministri, sottosegretari, federali della Repubblica di Salò e del partito nazionale fascista. Tuttavia questo racconto non è detto che sia l’assoluta verità, perché nel trascorrere del tempo emergono fatti nuovi e versioni differenti che se nulla cambia circa la fine di questi personaggi, quelle che vengono modificate sono invece le circostanze e le modalità. La verità, quella senza se e senza ma, senza incertezze, non è mai facile da trovare e ancor più difficile lo è quando ci sono di mezzo delle ricchezze, in special modo se sono tante. E, benché non si abbia certezza sull’esatta entità, già alcuni dati che appaiono nel complesso possibili parlano di circa 8 miliardi di lire dell’epoca, di un’ingente quantità di oro, di preziosi vari, insomma quello che non a caso si può definire un tesoro. Tanti l’hanno visto, è passato per non poche mani, ma si è inspiegabilmente perso e tutto lascia supporre che in larga parte sia finito nelle casse del Partito Comunista Italiano, disposto a difendere questa appropriazione indebita con tutti i mezzi, non esclusa forse anche l’uccisione di chi sapeva e probabilmente voleva parlare. Ci furono indagini, si trovarono anche dei presunti colpevoli, tutti dell’area comunista, ma il processo fu continuamente rinviato, tanto che approdò alla Corte di Assise di Padova ben dodici anni dopo i fatti e li si arenò, con il colpo di grazia dato dalla morte improvvisa di uno dei giurati che mandò all’aria tutto il procedimento che evidentemente non s’aveva da fare. Nulla di nuovo, perché è uno dei tanti misteri all’italiana, ma se l’aspetto di giustizia resta scoperto quello storico invece pretende giustamente che si tenti almeno di pervenire a un barlume di verità ed è quello che fa Gianni Oliva con questo libro, senza con ciò apparire un revisionista, secondo una moda attualmente in voga, tanto più che politicamente l’autore non è anticomunista, anzi è il contrario. Assume quindi una particolare rilevanza la sua ricerca, che non può essere considerata di parte, in quanto fa emergere responsabilità proprie di esponenti del suo partito. Oliva, con meticolosità e rigore, ricostruisce la vicenda partendo dagli ultimi giorni di Mussolini, ai quali è dedicata quasi la metà del libro, e proseguendo sulla base dei documenti processuali, di quel procedimento avanti la Corte d’Assise di Padova interrotto per la scomparsa di uno dei giurati e non più ripreso in quanto il coinvolgimento di due parlamentari (Dante Gorreri e Pietro Vergani) avrebbe comportato tempi lunghissimi per le autorizzazioni a procedere e infine, a salvare capra e cavoli, e a mettere una pietra tombale sull’aspetto giudiziario intervennero le due amnistie del 1970 e del 1973. Tuttavia, secondo Oliva, resta incontrovertibile la responsabilità politica del Partito Comunista se non altro nella gestione dell’emergenza dei giorni turbolenti della fine di aprile del 1945. Non c’è certezza peraltro su dove finì il tesoro, se fu oggetto di mire individuali, o di partito, o di entrambi, anche se si può ragionevolmente supporre che il Partito Comunista ne abbia almeno in parte beneficiato. Oliva non conclude quindi l’opera con certezze, ma la storia spesso non è verità e già porsi dei problemi o dei dubbi sulle versioni ufficiali è almeno un tentativo di avvicinarsi alla verità. Il libro si fa apprezzare, peraltro, anche per altri aspetti, come l’analisi approfondita dei motivi che portarono all’esecuzione di Mussolini e degli altri gerarchi, nonché alla macabra esposizione dei loro corpi a Milano in piazzale Loreto. Insomma, in ogni caso Il tesoro dei vinti è un saggio storico che si dovrebbe leggere.
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