Si è detto che ogni epoca ha innovato la propria cultura in tre modi diversi e correlati tra di loro: la scoperta, l’invenzione, il design. La nostra è quella alla quale più si adatta l’etichetta di età del design, rispetto a quella post-rinascimentale (della scoperta) ed alla tarda modernità (dell’invenzione). Ciò perché il digitale «sta riducendo i vincoli e aumentando le possibilità a nostra disposizione ed amplia le nostre possibilità di strutturare il mondo, offrendoci un’immensa e crescente libertà di strutturare e organizzare il mondo in una moltitudine di modi, per risolvere una varietà di problemi vecchi e nuovi». Un fenomeno analogo colpisce anche il processo civile che, pur avendo una tradizione sedimentata e, nei suoi fondamenti costitutivi, immutata da secoli, è figlio del suo tempo, al pari di ogni altra istituzione sociale. Da un lato, la digitalizzazione dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione ha coinvolto le norme procedurali per aspetti che solo superficialmente sembrano essere relegati alla «bassa cucina». Si pensi, solo per citare gli esempi più macroscopici, all’impatto delle nuove tecnologie e del processo civile telematico sulla qualità e quantità di informazioni che vengono riversate nel processo-fascicolo o alle regole che consentono lo svolgimento delle udienze in modalità telematica attraverso l’utilizzo di sistemi di telepresenza. Dall’altro, è ormai consolidata la tendenza che porta i modelli processuali ad evolversi da forme procedimentali rigidamente predeterminate verso altre più flessibili, con un giudice tailor al quale sono attribuiti poteri di adattare la stoffa procedurale alle esigenze del caso concreto. Da qui, la necessità sempre più pressante di passare da interventi tecnici di ingegneria procedimentale a forme di design processuale di più ampio respiro.
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