Le mani tremano, le tempie sono fradice di sudore. Gli occhi seguono ipnotizzati la roulette che turbina vorticosamente, mentre nell'altro senso gira a gran velocità quella pallina d'avorio carica delle speranze di ognuno dei giocatori che si accalcano attorno al tavolo. Un lungo istante precede il responso dell'infida sfera, un attimo che appare infinito durante il quale un brivido percorre la schiena, un inarrestabile formicolio pervade le membra e il terrore di un insuccesso toglie fiato e lucidità. Quindi, guidata dal fato, dalla sorte, dal caso o da quello che si preferisce la biglia sceglie la sua casella, il disco si ferma e vengono decretati vincitori e vinti. I primi esultano inebriati dall'adrenalina e da quel senso di onnipotenza che dà la vittoria. Le loro mani arraffano il frutto della giocata vincente mentre la loro mente è già proiettata al prossimo giro di ruota. I secondi sprofondano in un senso di sconforto che li inebetisce, la rabbia li rode, il bisogno di riscattarsi si fa impellente e li costringe a tentare nuovamente la fortuna guidati dalla stessa speranza e oppressi dalla medesima paura. Il gioco diventa un circolo vizioso che porta alla rovina, il demone dell'azzardo concupisce l'uomo approfittando delle sue debolezze. Lo sa bene il nostro caro Alekséj Ivànovitch che attorno a quella maledetta ruota numerata ha visto compiersi il decadimento della rispettabile “baboulinka” Antonida Vassìlevna, crollare i castelli di sabbia dell'altero generale, insinuarsi il germe della follia nella sua amata Polina Aleksàndrovna, realizzarsi infine la propria rovina. Il vizio della roulette lo ha portato a girovagare di tavolo in tavolo, di casinò in casinò, di città in città inseguendo quella che in realtà non è sete di denaro. Lui i soldi li disprezza, se c'è una cosa che ha imparato è che neanche con una vincita di centomila fiorini si può comprare la cosa che più conta nella vita: l'amore. A spingerlo verso il baratro è piuttosto l'insoddisfazione, la follia, la fame di gioco fine a se stessa. La medesima malattia che ha tormentato per gran parte della sua esistenza l'autore stesso, il grande Dostoevskij che, forte delle sue sventure ai tavoli da gioco, crea e ci lascia questo piccolo capolavoro letterario. La dolcezza della sua penna e la solita maestria nel raccontare le vicende umane si accompagnano alla sua infausta esperienza di giocatore, regalando un romanzo breve ma denso di significato, nonché pregno di coinvolgimento emotivo e ricco di sensazioni. La paura, la speranza, la rabbia, la gioia, le angustie, tutti i sentimenti prodotti dall'azzardo vengono abilmente sviscerati dal maestro russo che attraverso il protagonista Aleksèj diffida i lettori dal farsi affascinare dal demonio del gioco che inevitabilmente porta l'uomo verso la più terribile iattura, perché "chi capita una volta su quella strada, è come se scivolasse in slitta da una china nevosa, sempre più in fretta, sempre più in fretta”.
Quella che Dostoevskij tratteggia nel "Giocatore" è una vera e propria radiografia letteraria del vizio del gioco, un'istantanea dei modi in cui il demone dell'azzardo può possedere uomini e donne di età ed estrazione sociale diversa. Un'istantanea così vivida da spingere Sergej Prokofiev a trasformarla in un'opera omonima, caposaldo della lirica novecentesca. Nella fittizia cittadina tedesca di Roulettenburg va in scena, attorno a un totem fatto di fiches e casinò, un vero e proprio carosello di figure, dal giovane precettore Aleksej al vecchio generale, dall'anziana, ricchissima nonnina al cialtronesco marchese des Grieux, dalla graziosa Polina alla misteriosa mademoiselle Blanche. Succede di tutto, eppure nulla cambia e chi, come Aleksej, è posseduto dal gioco potrà guarire e redimersi, sì, ma solo "da domani".
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Anno edizione:2011
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Enrico Caramuscio 05 gennaio 2015
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