"Io sono del mio amato" è un romanzo della scrittrice, drammaturga, sceneggiatrice e regista Annick Emdin. A Gerusalemme, nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim vive Levi Kogan, primo di sette fratelli, secondo le tradizioni e le norme religiose degli charedi, per volontà di suo nonno Chaim. Un giorno Levi incontra Yael, una giovane soldatessa che lo salva da un attentato. Levi si innamora di lei e inizia ad essere tormentato dal desiderio di rivederla, cosa che però va contro ai dettami della famiglia. Yael è totalmente diversa dalle persone che Levi conosce; fuma, indossa pantaloni corti, sa combattere. Parallelamente alla vicenda di Levi, il romanzo racconta quella di nonno Chaim da giovane, a partire da una cittadina ucraina nel 1941, il giorno del suo matrimonio, quando succede qualcosa che sarà determinante per tutto il resto della sua vita. La grande Storia e quella della famiglia Kogan si alternano tra passato e presente in un romanzo di rara sensibilità, scritto da una giovane autrice di grande talento.
Io sono del mio amato
«Io sono del mio amato racconta conflitti universali che sembrano particolari e viceversa e che lampeggiano tra l’appartenere e il non appartenere, il decidere per sempre o per una volta sola, la voglia di scoprire e il bisogno di stare, di identità, di avere un nome solo e non tanti. E ha una vivacità che fa invidia, rara nella letteratura italiana contemporanea.» - Alessandro Litta Modignani, Il Foglio
«Al di là della struttura arguta e avvincente del romanzo, Emdin fa balenare alcune grandi questioni sull’identità e l’appartenenza, domande che paiono rimandare ai grandi romanzi di Chaim Potok.» - Lorenzo Fazzini, Avvenire
Gerusalemme. Nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim vive Levi Kogan, primo di sette fratelli e nipote prediletto di nonno Chaim, baluardo inattaccabile delle norme religiose della comunità. È quindi un vero terremoto quello che si abbatte sulla famiglia quando Yael, una giovane soldatessa, salva Levi da un attentato. Perché Yael sa usare le armi, indossa pantaloni corti, fuma, non sa cucinare… e s'innamora, corrisposta, proprio di Levi, che si trova così davanti a un bivio: da una parte l'esistenza che il nonno e la religione hanno tracciato per lui; dall'altra la ribellione e l'amore. Una scelta che però ha radici lontane, che affondano nella vita segreta di Chaim e in un matrimonio che si doveva celebrare nel 1941, in una sperduta cittadina ucraina, e che invece è stato l'inizio di una tragedia… Passato e presente si rispecchiano, la guerra e la pace si mescolano, nonno e nipote si confrontano da una sponda all'altra del grande fiume in cui scorre la Storia, ma anche dell'impetuoso torrente della storia di una famiglia che ha sempre affrontato una realtà mutevole e spesso drammatica. E il futuro sta per portare altre sfide, altri orizzonti, altre passioni...
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Anno edizione:2024
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Annick Emdin è giovanissima – 29 anni – ed è già comunque una “veterana”, dal punto di vista del curriculum letterario e della tecnica narrativa. Non la conosco – l’ho vista per la prima volta (e ultima finora) il 19 ottobre, ad una presentazione del suo secondo romanzo, Io sono del mio amato, appunto; e non me la sento di provare a ricostruire il suo curriculum, il quale al momento mi suscita un interesse molto relativo: il lettore potrà facilmente farlo da solo, se ci tiene, grazie alle informazioni che ormai ognuno di noi può procacciarsi in rete. Io sono del mio amato è l’ultimo libro di Annick Emdin ma per me è il primo suo che leggo, e abitualmente tendo ad assumere un primo approccio “strutturalista” sia all’arte in generale sia alla letteratura in particolare; cioè, mi interessa innanzi tutto il risultato a se stante e quasi nulla – in un primo momento, ripeto – chi l’abbia prodotto, in quali condizioni particolari e via dicendo. Giacché mi ha molto piacevolmente sorpreso la pubblica presentazione del romanzo cui ho assistito nel tardo pomeriggio del 19 ottobre, al pisano Teatro Nuovo, ho acquistato Io sono del mio amato alla bancarella allestita all’ingresso e me lo sono goduto poi a casa quasi d’un fiato: ora posso e devo dire che sia i quattrini sia il tempo che vi ho impegnato sono stati spesi benissimo; anzi, ci ho guadagnato, e tanto. Non vorrei addentrarmi nella trama del romanzo di Annick Emdin, che il presente lettore di questa recensione e futuro lettore – spero – del romanzo stesso potrà poi godersi da solo. Basti dire che l’andatura del libro si basa sul sapiente alternarsi di due situazioni vissute in due tempi diversi, fino a quando esse non confluiscono in uno spazio e un tempo comuni, verso la fine del romanzo: due scenari che corrispondono a spezzoni della vita di alcuni ebrei ucraini, ai tempi della seconda guerra mondiale, da una parte; e, dall’altra, ad altri spezzoni della vita di alcuni dei medesimi, dei loro discendenti e di alcuni altri nuovi personaggi, nell’Israele della metà degli anni ’90 del secolo scorso. Il mestiere dello scrittore “scafato” si nota ad ogni pagina, anche se la giovane Annick Emdin non tende mai ad un’esibizione autotelica della propria maestria: la vivacità quasi cinematografica con cui l’autrice abbozza azioni e situazioni (non è un caso che vari commentatori si siano già riferiti, prima di me, alle straordinarie potenzialità di questo romanzo come punto di partenza per un’auspicabile sceneggiatura filmica); il ricorso frequente, alla fine dei capitoli, al cliffhanger per troncare l’azione all’improvviso, lasciando il lettore col fiato sospeso; il ritmo incalzante dei polisindeti e di altre anafore non meno incisive – tutti questi artifici, e altri, servono (e come!) a stuzzicare le capacità immaginative ed empatiche del lettore, e non solo – e neanche soprattutto – a sbalordirlo. Nonostante le straordinarie capacità affabulatorie di cui dà ampie prove, l’autrice si attiene a un linguaggio semplice, corrente, non contaminato né da volgarità né da preziosismi; e lo fa apposta, sono sicurissimo che il lessico forbito non le fa difetto. Questo accentua l’aura fiabesca che sul romanzo aleggia: sembra un po’ una fiaba, sì, ma non una fiaba di quelle moderne, buoniste; piuttosto una fiaba complessa, agrodolce, a tratti crudele, insomma, come quelle dei Fratelli Grimm. Astraendo ora dalle sue spiccate qualità letterarie, il romanzo di Annick Emden sembra nascere innanzi tutto da un profondo desiderio – utopico, forse, purtroppo (e poi chi lo sa, speriamo di no!) – di arrivare ad una “conciliazione degli opposti”: mettere d’accordo gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, gli ebrei militaristi e quelli pacifisti a oltranza, il Tanàkh e la Bibbia cristiana, gli haredim e gli atei (o almeno gli agnostici). Ho voluto accennare – alquanto cripticamente, allora, lo riconosco – a tale atteggiamento programmatico già nel titolo della presente recensione, con quel riferimento alla “quadratura del cerchio”: non mi pare fuori luogo, infatti, parlare di quadratura del cerchio a proposito delle dicotomie elencate nel periodo precedente; oppure a proposito dell’immagine, di forte spessore simbolico, di uno dei giovani ebrei in fuga dai nazisti, costretto – in un modo blasfemo ma giustificato dalla necessità – ad attaccare il suo coltello all’avambraccio, servendosi per questo dei tefilim. Il giorno prima del mio primo contatto con Io sono del mio amato, e cioè il 18 ottobre, su «La domenica del Sole-24 ore» c’era un articolo di monsignor Gianfranco Ravasi, “Due”, che mi ha particolarmente colpito. Iniziava con una corta citazione di Marco Aurelio (che qui accorcio ancor di più): «Siamo in questo mondo per aiutarci l’un l’altro come piedi, mani, palpebre, come i denti di sopra e di sotto.» E finiva con un verso di Paul Eluard: «Noi verremo alla meta non a uno a uno ma a due a due». Nel romanzo di Annick Emdin i personaggi si stagliano sempre in gruppi di due, di tre, di quattro o di più: sempre il multiplo, mai lo stirneriano unico. L’unico uno del libro, solo, isolato, “spaiato”, è un lupo nero – una belva solitaria che finisce ammazzata e sparisce subito dalla storia: sebbene uno dei fuggiaschi ebrei abbia caricato il lupo morto sulle spalle per usarlo come una sorta di “moneta di scambio”, il lupo viene “scaricato”, viene cancellato all’improvviso dal testo, e non si sa che ne abbiano poi fatto... Scaricato, sì, e non a caso, credo; perché in questo romanzo (e nella vita reale, mi sa) l’individuo isolato diventa invisibile, svanisce e sparisce del tutto, come uno sbuffo di fumo disperso dal vento. Per non rimanere isolati, e dunque condannati a una morte meschina e prematura, bisogna mettersi d’accordo con gli altri, anche con i nostri opposti: basta che non si tratti o di nazisti o di lupi solitari. È la caratteristica noachita per eccellenza: in effetti Noè questa capacità ce l’aveva già iscritta nel suo stesso nome, che in ebraico vuol dire “accomodante”, “accondiscendente”. Vivere vuol dire convivere, vivere con gli altri, ed implica una sorta di tendenziale, velleitaria, eternamente incompiuta quadratura del cerchio. Si sa che la quadratura del cerchio è un’utopia matematica, che si tratta di un problema di impossibile risoluzione; ma mi pare che l’autrice (come me) creda ai miracoli, o almeno a un certo tipo di magia: non in ambito matematico, di certo, ma nella letteratura e nella vita ci si può sempre provare a far quadrare il cerchio, a suscitare la mirifica scintilla, magari con qualche possibilità di successo – mettendoci l’amore. E scusate il parolone amore che può suonar stantio o dolciastro, ma Io sono del mio amato è un romanzo d’amore; e non dobbiamo avere remore quanto ad evocare e invocare l’amore, come d’altronde fa l’autrice quasi ad ogni pagina (passi l’esagerazione), senza cadere per questo in stucchevoli sentimentalismi. Ed in esso risiede, credo, il messaggio fondamentale di un romanzo da leggere e rileggere, da tradurre, da trasporre al cinema, da raccomandare a chiunque – come io nel mio piccolo sto provando a fare. Arlindo J. N. Castanho
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